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Intesa Sanpaolo-Confindustria, scommessa da 200 mld per rilanciare la Manifattura

L’accordo 2025-28 tra Intesa Sanpaolo e Confindustria prevede la messa a disposizione di 200 miliardi di euro per “promuovere la competitività del sistema produttivo italiano, sia a livello nazionale sia internazionale, e sostenere i processi trasformativi necessari allo sviluppo economico”. Ovviamente ci auguriamo che ciò avvenga (cioè che aumenti la produttività), ma le esperienze passate non sono molto rassicuranti. Infatti tutti i soldi spesi dal 1970 a oggi per raggiungere l’obiettivo non sono serviti. Non a caso i Paesi del Nord Europa sono molto scettici a concederci finanziamenti a riguardo e non vogliono accettare un debito comune per gli investimenti di stimolo della nostra economia.

Nell’indice Total factor productivity, mentre l’Italia è ferma ai valori degli Anni 70, la Germania ha aumentato la produttività del 65% e la Francia del 35% (dati dell’Università di Groningen). Dal 2000 (anno di entrata nell’euro) abbiamo addirittura perso in assoluto l’8%, accumulando un gap con Berlino pari al 73% e del 48% rispetto a Parigi. Il gap in Prodotto interno lordo (Pil) reale rispetto agli altri Paesi ha avuto ovviamente un andamento simile: siamo l’unico Paese ad aver perso Pil pro capite con l’entrata nell’euro. Anche i recenti massicci interventi finanziari connessi a Industria 4.0 e il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) non hanno scalfito tale trend nazionale.

Il Manifatturiero è in crisi da anni

Comunque ora il vero problema connesso ai finanziamenti per l’aumento della produttività riguarda l’ambito economico di applicazione e le leve che si intendono potenziare. Prendiamo come caso esemplificativo proprio l’accordo Intesa Sanpaolo-Confindustria. Quali ambiti di applicazione prevede? I soliti, cioè gli stessi che per tre decenni non hanno contribuito all’aumento del Pil e della produttività totale.

L’ambito implicito (e spesso molto esplicito) dell’accordo è infatti ancora solo quello dell’industria manufatturiera. Ma dovremmo chiederci, innanzi tutto, quanto questo settore incida sul Pil dell’Italia: siccome si tratta del 20%, dovremmo considerare che un aumento anche del 5% della produttività in questo ambito (mai successo negli ultimi 50 anni) inciderebbe solo per l’1% sul Pil nazionale. Inoltre i volumi del Manufacturing stanno crollando in Italia (e in Europa) da 22 mesi consecutivi e lo scenario competitivo internazionale non prevede un aumento nel breve-medio termine. Il settore che pesa maggiormente sul Pil (80%) è quello dei Servizi (il Turismo vale il 13%): un uguale aumento del 5% in questo caso inciderebbe per il 4% sul Pil nazionale.

Tuttavia è chiaro che il Manifatturiero è un settore di eccellenza per l’Italia, grazie al Made in Italy che consente di esportare i prodotti ben fatti in tutto il mondo. Per questo serve continuare a investire in questo ambito, ma occorre rendersi conto che le leve sulle quali si intende spendere i finanziamenti non sembrano essere le più adatte, almeno per il breve termine.

Ci servono le grandi aziende e non le startup

Esaminiamo gli ambiti di azione dell’accordo Intesa Sanpaolo-Confindustria. “Sostenere i processi trasformativi con focus sulla transizione 5.0”: si tratta di efficientamento energetico delle aziende, cosa molto utile, forse necessaria, ma non sufficiente e comunque con poco impatto sulla competitività (ricordiamo che il gap in costi energetici per la produzione è di tre volte rispetto ai Paesi concorrenti). “Accelerare la transizione sostenibile”: è un’altra interessante iniziativa, ma non impatta direttamente sulla competitività. In questo caso è utile ricordare che tutto ciò che asseconda le strategie green dell’Europa non sarà certo un fattore di aumento della nostra competitività verso gli altri Paesi; al massimo servirà per ‘seguirli’ in tali sviluppi.

Giusta la scelta di “investire su filiere strategiche (con focus su Aerospazio, Robotica, Intelligenza Artificiale, Scienza della vita)”: però forse solo per l’Aerospazio (ormai unica presenza strategica che ci rimane, che comunque pilota da sola le sue filiere). La Robotica infatti la stiamo perdendo e nell’ AI non abbiamo certo capacità di innovazione, ma solo possibilità di utilizzo. In effetti questa tecnologia andrebbe usata principalmente per sviluppare nuovi servizi innovativi (nei quali per l’Ocse siamo al 41esimo posto su 42, quindi è difficile immaginare che potremo usarla per un vantaggio competitivo).

Promuovere soluzioni per l’abitare sostenibile dei lavoratori”: è giusto, ma è una priorità per l’aumento della competitività e del Pil a breve termine? “Investire in Ricerca e Innovazione per la crescita di startup e PMI innovative”: altra lodevole iniziativa, ma all’Italia servono le grandi aziende che creino occupazione e Pil, non un modello per le startup – utile a medio termine – o di piccole imprese che, ‘male accompagnate’ dal contesto italiano, sono riuscite solamente a salvarci dal tracollo. Ma, se è vero che le PMI hanno tenuto in piedi l’Italia, non possiamo ora affidare loro il compito di far risorgere la nostra economia.

Rafforzamento della struttura finanziaria delle imprese”: interessante proposta, purché non serva per tenere in piedi aziende decotte e non competitive e allungarne i tempi di agonia (come accaduto per anni per le fabbriche automobilistiche o per Alitalia). “Sostenere la crescita e lo sviluppo delle imprese del Mezzogiorno”: forse non è il momento di sperare ancora in uno sviluppo industriale del Sud dopo tutti i fallimenti passati. E per di più proprio ora che il Manufacturing è in declino competitivo in tutta l’Europa occidentale e le multinazionali gli investimenti produttivi li fanno altrove. Sarebbe ora più utile usare quei soldi per sviluppare un turismo di qualità nel Mezzogiorno.

L’Italia paga la mancanza di strategia

La sintesi è che nell’accordo ci sono tante belle e utili iniziative, ma forse non sono le priorità del momento. Non offrono alcun vantaggio competitivo all’Italia (se non un ‘me too’) e, soprattutto, sono destinate a un settore con basso impatto sul Pil. Sono azioni necessarie per colmare gap che potrebbero diventare pericolosi, ma non certo per ridurli verso l’Europa. E sono figlie di una strategia perdente, anzi di una totale mancanza di visione come Paese che si limita a voler scimmiottare altri Paesi europei, senza capire che ci servono anche strategie differenzianti, come ha invece ben capito la Spagna.

Sarebbe invece più utile parlare di come ci potremmo differenziare dagli altri Paesi per acquisire vantaggio competitivo, ma questo aspetto sembra non interessi a nessuno. Quasi tutti, molto più comodamente, vogliono guardare al futuro con gli occhiali del passato, cioè mantenendo gli stessi paradigmi economici del secolo scorso e di finanziare ciò che ci chiede l’Europa. Il ‘negazionismo’ diffuso sulla nostra pesante situazione economica è molto pericoloso e non consente di avere quel senso di urgenza necessario per smuoverci dal nostro immobilismo (come denunciato dal Censis e dall’Ocse). Questa situazione è stata denunciata anche da Lorenzo Codogno (London School of Economics) e da Giampaolo Galli (Direttore dell’Osservatorio sui Conti Pubblici, docente all’Università Cattolica del Sacro Cuore), nel loro libro Crescita economica e meritocraziaPerché l’Italia spreca i suoi talenti e non cresce (Il Mulino, 2022).

manufacturing, Accordo Intesa Sanpaolo-Confindustria, finanziamento Manifattura


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Giorgio Merli

Giorgio Merli è autore di numerosi libri e articoli sul management pubblicati in Europa e negli Usa; è consulente di multinazionali e Governi, oltre che docente in diverse università in Italia e all’estero. È stato Country Leader di PWCC e di IBM Business Consulting Services

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