Apprendere dal virus: il contagio delle esperienze

L’emergenza sanitaria ha fatto emergere il valore dei racconti delle storie vissute da ognuno di noi.

Si sente dire di frequente: “È stato uno tsunami”. L’uso di questa espressione si presta a qualche riflessione. La parola giapponese sta per “onda del porto”, “onda anomala” o “serie di onde”. Potremmo benissimo tradurre con “maremoto”. Eppure ci piace usare parole straniere, di cui, in fondo, non conosciamo il significato. È poi un modo per prendere le distanze dal fenomeno, da ciò che accade e che viene tra noi; è un modo per attribuire all’evento la caratteristica di una fatalità ineluttabile, allontanando ogni responsabilità e giustificando ogni nostro errore e incuria.

Ci converrebbe, invece, ricordare che le nostre capacità si mostrano proprio nel momento dell’emergenza, quando accade qualcosa di imprevisto. Non c’è grande merito nel far fronte ad accadimenti già accaduti quasi uguali nel passato.

Di fronte ad eventi catastrofali come quello che abbiamo vissuto – e che stiamo ancora vivendo – l’apprendimento più importante non consiste certo nell’aver capito meglio come far fronte a questo virus. Il prossimo sarà diverso ed esigerà differenti cautele. E anzi, ci conviene pensare che la prossima catastrofe non sarà una epidemia. L’apprendimento più importante sta, dunque, nell’imparare a far fronte all’emergenza, quale che sia la lezione. Imparare a reagire in modo sempre più rapido, più preciso, più adeguato alla contingenza; imparare a far fronte all’imprevisto.

Accettare di andare a tentoni

Così come il greco peiráo, il latino perior significa: “io provo”. Da qui ex-perior e quindi “esperienza”, “sperimentazione”. Qualcuno ha modo di ‘toccare con mano’, di osservare e quindi di capire. Di conseguenza, rende edotti gli altri umani di ciò che ha compreso. Questa dovrebbe essere la scienza. Non sempre, però, gli esperti hanno fatto veramente esperienza di ciò di cui parlano. Eppure parlano e la loro parola cade sulla testa dei cittadini come legge.

Già in latino troviamo le parole experientia ed experimentum; ma la parola più usata, e più pregna di significato, tra i derivati del verbo perior, era un’altra: periculum (“tentativo”, “prova” e anche “rischio”). La parola finirà per dar nome alla situazione in cui la sicurezza è minacciata, ma in origine il periculum è il coraggioso tentativo di affrontare l’emergenza, il fenomeno: qualcosa che appare e che accade per la prima volta. Il periculum è accettare il nuovo che è venuto presso di noi, tra noi.

Esemplare periculum è l’epidemia. Epi (“presso, in mezzo, tra”) e demos (“contrada, regione, territorio, e poi popolo che abita quel territorio”). Epideméo è in greco “vivo nel mio Paese”, cioè in patria, tra i miei, nel seno del mio popolo. E poi anche: risiedo tra quelle persone come forestiero. Epidemía sta per “soggiorno in un luogo”, “visito”, “vengo tra voi”. Basilio, Dottore della Chiesa, nel Terzo Secolo scriveva: “L’epidemia del Cristo”. Una pioggia persistente è un’epidemia. E lo è anche: la venuta del male.

Il significato della parola è dunque chiaro: un nuovo virus – in latino “veleno” – giunge nel nostro Paese, nella nostra comunità, in questo luogo, per vivere tra noi; anzi giunge per vivere dentro di noi, nel nostro corpo. Dovremo dunque, per dura esperienza, capire come far fonte a questa inopinata venuta, a questa irruzione. Certo possiamo far tesoro di precedenti esperienze. Prima, altri virus erano giunti tra noi e dentro di noi e qualcosa certo abbiamo imparato. Dobbiamo farne tesoro. Ma con cautela. Ogni virus è diverso dall’altro. Conviene concentrare l’attenzione su questo virus, provare a difendersene e accettare di andare a tentoni.

Mettere in comune le conoscenze

Di fronte al nuovo virus, la risorsa cui fare affidamento è l’esperienza di chi ha ospitato il veleno dentro di sé; l’esperienza di ogni medico che si è trovato a curare questo veleno. Ogni singola umana esperienza è utile, ogni tentativo di risposta aggiunge qualcosa. Di fronte al male che giunge tra noi – al veleno che si introduce dentro di noi – tutti saranno disposti a condividere le esperienze. Nessuno si tirerà indietro. Nell’emergenza, infatti, scatta la solidarietà. Le esperienze potranno essere messe insieme, reciprocamente offerte: come è emerso il male, emergerà una risposta adeguata.

Si può dunque sostenere che la risposta all’epidemiaepi demía: “il venire del male tra il popolo” – sta nella democrazia (demos kratós, “la forza del popolo”). Ma non sempre il cittadino è considerato agens, attore consapevole della propria cura. Spesso anzi non è nemmeno considerato in grado di descrivere la propria esperienza. Il patrimonio di conoscenze della persona e del medico che sono stati a diretto contatto con il male, dovrà essere filtrato e sintetizzato norme, regole, protocolli: il cittadino è ridotto a patiens, “utente”, oggetto passivo di attenzione professionale.

La malattia, così, non è più la cosa indesiderata che è venuta tra noi. È un qualcosa che solo gli specialisti possono comprendere e combattere. Contestualmente, l’attenzione si sposta dal doloroso caso singolo, dall’essere umano costretto a ospitare il veleno, a sempre più vaste anonime popolazioni; dal singolo luogo, dove il male ha prodotto specifici effetti, a un territorio sempre più ampio, che alla fine è l’intero Globo.

Vivere l’epidemia o dichiarare la pandemia

A sancire il cambiamento di approccio, servono parole nuove. In greco antico pándemos è qualcosa che riguarda tutto il popolo, inteso per lo più come massa indistinta. Il significato del termine esclude qualsiasi riferimento a un nuovo arrivo, o una malattia. Ma serve un’espressione che richiami il senso dell’epidemia e allo stesso tempo vi si opponga. È così che nel 1853 la parola nuova “pandemy, e poi “pandemic”, compare nel Medical Lexicon di Robley Dunglison. Sono gli anni in cui la medicina, l’antichissima arte del “riflettere per curare”, si trasforma in scienza (non a caso il sottotitolo del fortunato manuale, già giunto alla nona edizione, recita: Dictionary of Medical Science. La pandemia, si legge, è “un’epidemia che attacca the tutta la popolazione (whole population)”.

L’epidemia è l’esperienza di chi, in un luogo, vive in carne propria il sopraggiungere del male. La pandemia è, invece, una sanzione ufficiale, è la dichiarazione di un’alta e lontana autorità, basata su criteri che l’autorità stessa ha stabilito. Il concetto stesso di pandemia, infatti, rende necessario l’istituzione di un ente dotato di autorità globale. Dal 1948 questo compito di vigilanza sanitaria universale è esercitato dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), cui compete la definizione della pandemia e la decisione di dire a ogni essere umano: la pandemia è tra noi. La gestione del caso singolo e l’attenzione alla situazione locale, a questo punto, sono ridotte a mere conseguenze di una strategia generale.

Resta comunque difficile definire cosa debba intendersi per “whole population. Varie le polemiche e divergenze, tra gli addetti ai lavori, intorno alla definizione di pandemia e ai citeri in base ai quali la pandemia può o deve essere dichiarata. Varie anche le polemiche attorno a dichiarazioni di pandemia immotivate e a dichiarazioni di pandemia mancate.

La regola vigente dal 1999, giudicata da molti imprecisa, comunque dice: “La pandemia sarà dichiarata quando è stato dimostrato che il nuovo sottotipo del virus ha causato diversi focolai in almeno un Paese e si è diffuso in altri Paesi, con modelli di malattia coerenti che indicano che la morbilità e la mortalità gravi sono probabili in almeno un segmento della popolazione”. Sta di fatto che in base a questa norma, l’11 marzo 2020 Tedros Adhanom Ghebreyesus, Direttore Generale dellOms, ha dichiarato: “Siamo giunti alla conclusione che il Covid-19 può essere considerato una pandemia”.

Oggi sappiamo che è stata una dichiarazione tardiva. A gennaio 2020 lo stesso Adhanom elogiava le misure adottate dal Governo cinese. Non si dimentichi che l’Oms è organismo sovranazionale notoriamente condizionato da equilibri politici, nei quali Pechino ha un gran peso. È anche innegabile il fatto che l’Oms subisce il condizionamento delle grandi case farmaceutiche, indispensabile interlocutore coinvolto nella ricerca e nella produzione in grande scala delle risposte mediche al virus.

Accettare la propria ignoranza per conoscere

Scienza e tecnica coltivano il progetto di fornire risposte e strumenti universali. Si propone l’immagine di una comunità scientifica coesa, orientata a una disinteressata ricerca del progresso, slegata da interessi finanziari e politici. È una narrazione, di comodo, alla quale, giustamente, i cittadini sono restii a credere.

I funzionari dell’Oms, in fondo, rappresentano abbastanza bene il tipo ideale dell’esperto che è tale non per aver personalmente sperimentato, ma per definizione, per appartenenza a un ente che sancisce l’autorità dei propri funzionari. Gli esperti, legittimati dall’appartenenza a un qualche ente, a una qualche università o a un qualche centro di ricerca, finiscono per essere presi come oracolo da giornalisti e cittadini. Nonostante ammettono di non avere alcuna sicurezza ‘scientifica’ in merito al come affrontare il nuovo virus.

Si può dunque dire che quand’anche la pandemia sia ufficialmente dichiarata, essa andrà affrontata come sempre si è affrontata un’epidemia: il nuovo che irrompe, a cui si deve trovar risposta. Risulta, infatti, ancora attuale la definizione che leggiamo nel Medical Lexicon di Dunglison: l’epidemia è “una malattia che attacca allo stesso tempo un certo numero di individui e che dipende da qualche particolare costitutio aeris, o condizione dell’atmosfera, rispetto alla quale siamo totalmente ignoranti”. Gli stessi scienziati specializzati in epidemiologia e in virologia, gli stessi esperti dell’Oms, e di ogni altro ente sono costretti a dichiararsi ignoranti. Accettare la propria ignoranza è il miglior punto di partenza per ogni cercatore di conoscenza e di risposte adeguato all’apparire del nuovo.

Cosicché nei momenti più gravi si torna a ricorrere alle stesse antiche e sagge misure – quarantena, distanziamento sociale – che la medicina tramanda da tempo immemorabile. Per far fronte al fenomeno, molte azioni possono essere sperimentate. Si ha notizia, infatti, di diverse azioni che si sono mostrate tempestive efficaci. Azioni nate da tentativi locali, dall’osservazione attenta e partecipe del male, e dall’intelligenza e dalla saggezza di medici e ricercatori. Ma ognuna di queste iniziative ha dovuto far fronte al mancato sostegno e anzi all’ostilità dell’Oms e di ogni altro ente centrale, inevitabilmente lontano dai territori dove il male si è insediato, ma attento a imporre i propri standard, la propria supervisione, le proprie regole. In sintesi: le proprie risposte.

Nel mentre queste soluzioni scientifiche definitive, sicure e universali vengono nelle sedi appropriate studiate, definite e negoziate tra le lobby interessate; il cittadino è ridotto all’inerzia, minato nella fiducia in se stesso. Resterà passivamente in attesa del momento in cui, sotto l’egida dell’Oms, a lui, come a ogni cittadino del Pianeta, verrà somministrato il vaccino. Viene così reciso il vitale legame del cittadino con la propria esperienza. Cade anche la possibilità di sentirsi responsabili in prima persona, di contribuire a trovare il modo per proteggere sé e gli altri, per convivere con l’ospite indesiderato, fino a estirparlo o a renderlo innocuo. Ogni scelta sarà in carico ad autorità, a membri della comunità scientifica. Saranno loro a dirci cosa fare e sempre loro ci diranno a quali reazioni del nostro corpo e a quali sensazioni dovremo porre attenzione.

La pericolosa accettazione di seguire gli algoritmi

Tecnici e scienziati ed esperti, più che alle notizie che giungono dal territorio, continuano a lavorare ai loro modelli e a fidarsi di questi, imponendone la fiducia ai cittadini. I modelli sono, però, inevitabilmente specchi che riflettono il passato e dipendano dalla qualità, dalla quantità e dalla rappresentatività dei dati dai quali sono alimentati (qualità, quantità e rappresentatività mai abbastanza bene esplicitate). Inoltre i modelli sono sempre condizionati dalle conoscenze, dai pregiudizi, dai preconcetti di chi li ha elaborati. E i modelli restano comunque niente più che testi e fonti da interpretare. Infine, si consideri che gli autori dei modelli, più che di fidarsi della propria capacità di interpretazione – cogliere nel modello le anomalie, l’irruzione del presente, il segno di ciò che sta accadendo in questo istante – tendono a delegare l’interpretazione ad algoritmi: procedure automatiche.

Ciò che i tecnici chiamano freddamente dati e tracciamenti, sono in origine proprio questo: narrazioni di esperienze vissute in prima persona, nel proprio territorio, da cittadini e da medici in prima linea. Oggi le tecnologie aiutano enormemente. Ciò che prima appariva impossibile, ora si può fare: le esperienze possono essere veramente raccolte, messe insieme e reciprocamente condivise. Le conoscenze condivise si fertilizzeranno l’un l’altra. La complessiva comprensione del fenomeno, e del suo continuo evolversi, crescerà esponenzialmente.

Ma purtroppo ai cittadini non viene detto: condividiamo le esperienze. Viene detto invece: usa una App. Senza spiegarne lo scopo; senza spiegare che si tratta di un programma, ovvero un insieme di istruzioni impartite alla macchina; senza spiegare che la App è condizionata, nel suo funzionamento, dal sistema operativo della macchina; senza spiegare che è solo un’interfaccia destinata a trasmettere altrove dati. Senza spiegare che si tratta di costruire insieme una risposta fondata sulla cooperazione e la partecipazione.

La distanza tra la parola “epidemia” e la parola “pandemia” ci ricorda in modo sintetico la distanza tra due scelte tecnologiche, due modi di intendere la cultura digitale. C’è una cultura digitale che si sostanzia nella costruzione collettiva di conoscenza, nell’apertura di reti di relazioni sociali, e una cultura digitale che si riduce a fornire un nuovo pulpito ad autorità legittimate dal solo appartenere a élite già costituite, il cui atteggiamento consiste nel tentativo di far capire alla gente quello di cui stiamo parlando. Quello di cui stiamo parlando noi, tramite i nostri codici che solo noi possiamo veramente usare con finezza.

Il cittadino così è costretto a disporre solo di divulgazioni, banalizzazioni, che portano sempre in sé il metamessaggio: sono magnanimo e ti parlo, anche se sono convinto che tu non possa veramente comprendere.

Fine prima parte 

Bibliografia e testi per approfondire

Bode M., Craven M., Leopoldseder M., Rutten P., Wilson M. (2020), Contact tracing for Covid-19: New considerations for its practical application, Mc Kinsey and Company, Global Public Health Practice, May.

De Lillo D. (1985), White noise, Viking Press, New York, trad. it. Rumore bianco, Pironti, Napoli.

Doshi P. (2011), “The elusive definition of pandemic influenza” in Bulletin of the World Health Organization, 89.

Dunglison R. (1853), Medical Lexicon. Dictionary of Medical Science, Blanchard and Lea, Philadelphia, Nona edizione (Prima edizione, 1833).

Heath Kelly (2011), “The classical definition of a pandemic is not elusive” in Bulletin of the World Health Organization, 89

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Francesco Varanini

Francesco Varanini è Direttore e fondatore della rivista Persone&Conoscenze, edita dalla casa editrice ESTE. Ha lavorato per quattro anni in America Latina come antropologo. Quindi per quasi 15 anni presso una grande azienda, dove ha ricoperto posizioni di responsabilità nell’area del Personale, dell’Organizzazione, dell’Information Technology e del Marketing. Successivamente è stato co-fondatore e amministratore delegato del settimanale Internazionale. Da oltre 20 anni è consulente e formatore, si occupa in particolar modo di cambiamento culturale e tecnologico. Ha insegnato per 12 anni presso il corso di laurea in Informatica Umanistica dell’Università di Pisa e ha tenuto cicli di seminari presso l’Università di Udine. Tra i suoi libri, ricordiamo: Romanzi per i manager, Il Principe di Condé (Edizioni ESTE), Macchine per pensare.

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