Departures

Arrivederci Italia, ciao

Atessa è una cittadina di 10mila abitanti in provincia di Chieti. Un piccolo comune abruzzese con la fortuna di avere una grande zona industriale. Il problema dei luoghi come questo, specialmente nell’estrema provincia di alcune regioni d’Italia, è che si fa una gran difficoltà a nutrire la propria immaginazione. Spesso i padri lavorano in fabbrica insieme con gli zii e anche i cugini lavorano nella stessa azienda. I genitori degli amici? Colleghi dei vari parenti.
Ad Atessa ci sono fondamentalmente quattro imprese che impiegano una parte importante della popolazione: lo stabilimento di una multinazionale italo-franco-americana dell’Automotive, la sede di una nota concorrente giapponese, un’azienda che produce pale eoliche e una che fa profilati di alluminio. In quest’ultima ci lavora mio padre, da tutta la vita. Poi ci sono le attività commerciali: bar tabacchi, qualche ristorante e un supermercato. I più temerari si avventurano fino a Lanciano, dove ci sono anche gli uffici, oltre alle industrie.

Ad Atessa c’è anche un buon liceo con degli ottimi professori, che nel mio caso – e in quello di tanti miei compagni di classe – hanno probabilmente fatto la differenza. Ad aver influenzato maggiormente la mia formazione, le mie aspettative e la mia fiducia nei confronti del mondo dei ‘grandi’, però, sono stati, senza ombra di dubbio, i miei genitori. Già dai tempi della scuola media, la prospettiva di andare via era per me un’idea interiorizzata. Lo ha fatto mia madre, che dopo il diploma ha viaggiato in Inghilterra per lavorare e imparare l’inglese; tornata a casa era una delle poche anglofone del paese, il ché le ha permesso di trovare rapidamente un’occupazione, in questo caso a Verona in una multinazionale giapponese. Ovviamente si trattava di un salto quantico, non esclusivamente in termini geografici, ma soprattutto per quanto riguarda l’esperienza occupazionale e lavorativa. Quel lavoro in sé, però, non faceva per lei; aggiungete la distanza dalla famiglia – e da mio padre – un po’ di sana nostalgia di casa e una serie di altre contingenze e, dopo un paio d’anni, avvenne il ritorno ad Atessa.

Tornata in Abruzzo, riprese a lavorare nel bar tabacchi di famiglia, da sempre gestito dai suoi genitori. Questa attività fu, per me, il primo vero contatto con il mondo del lavoro, che mi ha permesso di respirare e assorbire pratiche e significati contenuti in quel luogo. In un bar a gestione familiare, innanzitutto, si lavora mediamente dalle 10 alle 12 ore al giorno, anche perché i costi elevati rendono quasi sempre impossibile l’assunzione di personale. Raggiunta l’altezza sufficiente ad arrivare al bancone, iniziai a frequentare il locale, soprattutto per passare del tempo con la mia famiglia, ma anche per acquisire i rudimenti del mestiere: i bar di provincia, purtroppo, non sono sempre ambienti edificanti, il che mi ha portata ad allontanarmi inesorabilmente da quel mondo. Non si tratta di un’insensibile critica al contesto in sé (al quale evidentemente sono molto legata), quanto di una riflessione sulle dinamiche sociali sperimentate in un paese dove, a oggi, non c’è ancora una libreria e dove gettare lo sguardo oltre l’orizzonte, calcato da amici, parenti e conoscenti, è molto complicato.

Milano, amore sacro e amor profano

Come ho già anticipato, la scuola si è rivelata l’unica grande fonte di opportunità del mio paese: il percorso da intraprendere (con il dovuto impegno) per aprirsi delle porte alternative. Questo l’ho sperimentato, in modo particolare, osservando l’alto tasso di accesso alle università fuori regione da parte dei miei compagni e di quelli di altre classi del mio liceo scientifico. Discorso diverso, purtroppo, per chi ha frequentato gli istituti tecnici: in questo caso c’è stata meno propensione a uscire dall’Abruzzo.

Oltre all’istruzione e all’esempio familiare, ad aver indirizzato la mia scelta universitaria è stato mio padre, o meglio, le passioni che mi ha trasmesso. Da una parte c’è il suo lavoro in fabbrica, dall’altra c’è l’arte e la creatività, soprattutto manuale. È da lì che provengono le radici del mio interesse per la grafica e, di conseguenza, la mia scelta di optare per il Politecnico di Milano nel fatidico momento del vaglio delle facoltà universitarie.

Quando mi sono trovata per la prima volta in solitudine nella metropoli milanese ho sperimentato quello che il filosofo tedesco Immanuel Kant definisce “sublime”. Immaginate l’estatico momento in cui il timore derivante dalla grandezza e dal caos della città si unisce all’euforia del nuovo e delle possibilità. Alla lunga – come è normale che sia – ci si fa l’abitudine e si iniziano a scoprire le grandi bellezze, così come le contraddizioni. Milano è una città competitiva, in modo particolare nel settore del design dove, per emergere, serve saper coniugare il talento (quando si ha la fortuna di averne) alla capacità di sgomitare. Al contempo, però, si ha l’opportunità di misurarsi con persone altrettanto desiderose di emergere e, quindi, di crescere.

Dopo tre anni, la conclusione dei miei studi è stata inevitabilmente influenzata dalla pandemia, che ha soffocato le poche relazioni sociali che avevo fino a quel punto coltivato e che, in modo quasi beffardo, mi ha obbligata a cercare ispirazione per la mia tesi di laurea in design tra le quattro mura di un appartamento condiviso. Liberatami della corona d’alloro e dei pensieri di studentessa che ancora occupavano la mia mente, ho da subito iniziato a cercare un’occupazione.

L’articolo integrale è pubblicato sul numero di dicembre 2024 di Persone&Conoscenze.
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