Aziende (e persone) più vulnerabili davanti alla cyber criminalità organizzata
L’improvvisa digitalizzazione del lavoro, spinta in modo affrettato e massiccio dalla pandemia, se ha permesso di assicurare la continuità del business di molte aziende, dall’altra ha comportato anche un importante aumento di attacchi informatici. Innanzitutto, perché le Reti domestiche – quello che in tanti hanno chiamato “Smart working” in realtà è stato un Home working – sono generalmente meno sicure di quelle aziendali; ma non solo perché è noto che le persone sono ancora poco sensibilizzate sul fronte della sicurezza informativa.
L’ennesima conferma della continua crescita degli attacchi informatici è arrivata dal report condotto su scala globale e riferito al 2021, dei ricercatori dell’Associazione italiana per la sicurezza informatica (Clusit), che hanno registrato oltre 2mila cyber attacchi gravi nell’anno trascorso, che significa quasi il 10% in più rispetto al 2020 e con una media mensile di 171 intromissioni (il valore più alto mai registrato). Stando allo studio, il 79% degli attacchi rilevati ha avuto un impatto “elevato” in termini economici, sociali e di immagine (nel 2020 erano il 50%), di cui il 32% con una severità “critica” e il 47% “alta”. Sono invece diminuiti quelli di impatto “medio” (-13%) e “basso” (-17%). Una crescita di rilievo c’è stata anche rispetto alla stima dei danni inflitti: dal trilione di dollari del 2020 si è arrivati a 6 trilioni .
Gli esperti del Clusit hanno inoltre evidenziato la tendenza complessiva a mantenere riservati gli attacchi, contribuendo, pur senza intenzione, ad aggravare la situazione. Andrea Zapparoli Manzoni, membro del Comitato Direttivo del Clusit, ha commentato: “Non è più possibile procrastinare l’adozione di contromisure efficaci e gli investimenti necessari. Le risorse allocate dal Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) dovranno essere gestite con una governance stringente in ottica cybersecurity per tutti i progetti di digitalizzazione previsti, valorizzando finalmente le competenze informatiche delle persone”.
Nel mirino gli organismi di Governo e militari
Qual è stata la natura degli attacchi informatici nel 2021? Sono stati mirati e hanno colpito bersagli specifici appartenenti a tutti i settori, in maniera sostanzialmente uniforme, e al tempo stesso più selettiva. Per la prima volta dopo diversi anni, infatti, i ricercatori del Clusit hanno rilevato che l’obiettivo più colpito non è più quello definito come “Multiple targets” (colpiti del 13% e in discesa dell’8% rispetto al 2020), bensì nel mirino ci sono stati gli organismi governativo/militare (15% degli attacchi, +3%), seguiti dal settore informatica (14%, dato invariato rispetto al passato), dalla Sanità (13%, salito del 2%) e dall’Istruzione (8%, diminuito dell’1%).
Dal punto di vista geografico gli attacchi hanno colpito soprattutto l’America (45%, calati del 20% rispetto al 2020), l’Europa (21%, +5%) e l’Asia (12%, +2%). Sono però diminuiti gli attacchi verso location multiple, che nel 2021 hanno costituito il 19% del totale (-5%). Sostanzialmente invariata, invece, la situazione del fenomeno verso Oceania (2%) e Africa (1%).
Il fronte della criminalità informatica organizzata
Rispetto alle motivazioni per cui si compiono questi reati, il cybercrime si è confermato come la principale ragione dietro l’86% dei cyber attacchi (in crescita rispetto al 2020 del 5%). Tra gli attacchi gravi di dominio pubblico, l’11% è riferibile ad attività di spionaggio e il 2% a campagne di guerra dell’informazione (information warfare).
Considerando invece le tecniche di attacco, per il 41% dei casi sono stati utilizzati malware – in particolare ransomware (ovvero quei virus che limitano l’accesso ai dispositivi richiedendo un riscatto da pagare) – che si sono riconfermati gli strumenti preferiti dei cyber criminali per generare profitti (il dato è invariato rispetto al 2020). Seguono tecniche “unknown”, per lo più relative a casi di Data Breach (come, per esempio, distruzione, modifica o divulgazione non autorizzata di dati personali), utilizzate nel 21% dei casi; le vulnerabilità note (16%) e Phishing/Social engineering, impiegate nel 10% degli attacchi.
Un altro aspetto preoccupante è che i criminali collaborano attivamente tra loro. “Si sono ormai consolidati cartelli di servizi criminali identificabili, per esempio, come ‘Ransomware as a Service’”, ha commentato Sofia Scozzari, membro del Comitato scientifico del Clusit. “Significa che chi utilizza il ransomware non è più necessariamente chi lo ha progettato né un esperto di sistemi come ci aspetteremmo da un ‘tradizionale’ cyber criminale. Pensiamo che si tratti a questo punto di vera e propria criminalità organizzata, che ha capito quanto i crimini cyber possono essere remunerativi”. Peccato che se i criminali fanno cartello, la stessa cosa non avviene per chi si dovrebbe difendere. Con buona pace della sicurezza informatica.
Classe 1996, Martina Midolo è giornalista pubblicista e si occupa di social media. Scrive di cronaca locale e, con ESTE, ha potuto approfondire il mondo della cultura d’impresa: nel raccontare di business, welfare e tecnologie punta a far emergere l’aspetto umano e culturale del lavoro.
cybersecurity, Rapporto Clusit, cybercrime, Associazione italiana per la sicurezza informatica