demografia

Cara vecchia Italia: vivere nella crisi demografica

L’Italia è entrata in crisi demografica tra la fine degli Anni 70 e la prima metà degli Anni 80, quando il numero medio di figli per donna è crollato da oltre due figli (la soglia che corrisponde all’equilibrio tra generazioni) a meno di 1,5. Siamo attualmente uno dei Paesi che da più lungo tempo si trovano su livelli così bassi. Le dinamiche recenti, in particolare dopo la Grande recessione del 2008, sono state poi ulteriormente peggiorative.

Il tasso di fecondità è passato da 1,44 nel 2010 all’1,27 del 2019. Il dato è poi sceso a 1,24 nell’anno della pandemia, con conseguenze ancor più gravi nel 2021. L’esito complessivo è un esaurimento della capacità endogena di crescita della popolazione italiana, entrata dal 2015 in fase di declino, con un saldo naturale negativo non più compensato nemmeno dall’immigrazione. L’impatto di queste dinamiche sulla struttura per età della popolazione è stato tale che l’Italia è risultata il primo Paese al mondo in cui il numero di residenti Under 15 è sceso sotto quello degli Over 65. Quest’ultima fascia d’età ha ora raggiunto l’entità degli Under 25 ed entro il 2040 (forse già entro il 2035) supererà anche gli Under 35.

L’Italia sarà, inoltre, il primo Stato del vecchio Continente a portare entro questo decennio l’età mediana della popolazione oltre il traguardo storico dei 50 anni (rendendo, così, prevalenti nella penisola le persone con età superiore al mezzo secolo). Se oggi ci troviamo con un rapporto tra Over 65 e popolazione attiva tra i peggiori al mondo, tale valore potrebbe raddoppiare entro il 2050. Per avere un’idea delle implicazioni degli squilibri nel rapporto tra generazioni, supponiamo che esistano nel mondo due Paesi. Il primo ha un numero medio di figli per donna che si mantiene nel tempo poco sotto due. Di conseguenza, pur con saldo migratorio positivo, la popolazione non cresce, ma nemmeno diminuisce (o si riduce molto lentamente).

Ogni nuova generazione ha una consistenza sostanzialmente in linea con quelle precedenti. Pertanto, anche se aumenta la longevità, non si producono squilibri rilevanti tra componente anziana e fascia giovane-adulta. L’invecchiamento della popolazione risulta moderato e determinato, di fatto, solo dall’aumento della longevità. Diventa, quindi, più facile gestire tale processo come opportunità da cogliere, investendo sulle condizioni di una lunga vita attiva. Il secondo Paese ha, invece, una fecondità sotto 1,5. Di conseguenza, la popolazione è in sensibile diminuzione: il saldo tra nascite e decessi diventa sempre più negativo e l’immigrazione non riesce più a compensarlo.

A fronte di una popolazione anziana che aumenta il proprio peso, la riduzione della natalità rende sempre più debole la consistenza delle nuove generazioni. La persistenza nel tempo della bassa fecondità va via via a ridurre anche le generazioni in età riproduttiva, facendo entrare il Paese in un circolo vizioso in cui la denatalità passata vincola sempre più verso il basso la natalità futura. Si indebolisce la forza lavoro e peggiora fortemente il rapporto tra anziani e popolazione attiva, con conseguente maggior difficoltà, rispetto al primo Paese, sia di produrre ricchezza e benessere sia di rendere sostenibile il sistema di welfare pubblico.

Tutto questo vincola al ribasso anche le risorse che possono essere investite sulle nuove generazioni, in particolare sulla formazione, sugli strumenti di transizione scuola-lavoro, sull’autonomia e formazione di una propria famiglia. Sempre più giovani preferiranno spostarsi nel primo Paese, che fornisce migliori opportunità di realizzazione sia professionale sia di vita. Di fronte a squilibri demografici che aumentano, la stessa immigrazione diventa una leva sempre più debole: una realtà che non offre adeguate condizioni di valorizzazione e di sostegno progettuale agli autoctoni difficilmente risulta attrattiva per giovani dinamici e qualificati dall’estero, i quali tenderanno piuttosto a scegliere il primo Paese. In un contesto di questo tipo rischiano di aumentare anche tensioni e diseguaglianze sociali, rendendo più instabile lo stesso quadro politico.

Tra gli scogli da superare la difficoltà di rendersi indipendenti

L’Italia è tra le economie mature più vicine a trovarsi intrappolate in un simile scenario: gli indicatori demografici e relativi alla condizione dei giovani (in combinazione con quelli che misurano le diseguaglianze sociali e di genere) sono da troppo tempo tra i peggiori in Europa. Se ci confrontiamo con altri Paesi europei con fecondità più elevata della nostra, a parità di numero di figli desiderati, quello che ci distingue è la maggior presenza di tre principali scogli: l’età media del primo figlio; le scarse misure a supporto dei genitori e il rischio di povertà. Superarli va nella direzione di favorire la realizzazione stessa dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile, oltre che mettere le persone nelle condizioni di realizzare i propri progetti di vita.

Il primo riguarda soprattutto il tempo di arrivo del primo figlio ed è da ricondurre alle difficoltà dei giovani nella transizione scuola-lavoro e nel conquistare una propria autonomia dalla famiglia di origine. Intervenire su questo punto critico è coerente con la realizzazione degli obiettivi numero quattro e otto (“fornire una educazione di qualità equa e inclusiva” e “occupazione piena e produttiva e un lavoro dignitoso per tutti”). Ciò che rafforza la formazione delle nuove generazioni, l’inserimento attivo nel mercato del lavoro e la valorizzazione all’interno del sistema produttivo consente a esse di mettere basi solide ai propri progetti di vita.

È un dato di fatto che l’Italia sia entrata in questo secolo con investimenti in formazione terziaria, in politiche attive del lavoro, in ricerca, sviluppo e innovazione persistentemente più bassi rispetto alla media europea. Il risultato è una debolezza di tutto il percorso di transizione scuola-lavoro (fragilità nell’offerta di lavoro, inefficienze nell’incontro tra domanda e offerta, bassa valorizzazione del capitale umano nelle aziende), con conseguente aumento del rischio di intrappolamento nella condizione di Neet (i giovani che non studiano e non lavorano) o in percorsi di basso profilo professionale. A questo va aggiunta la difficoltà di accesso all’abitazione senza l’aiuto dei genitori (possibilità di ottenere un mutuo o sostenere con continuità i costi dell’affitto senza avere un lavoro stabile).

Negli ultimi decenni l’età mediana di uscita dalla famiglia di origine è salita a livelli attorno ai 30 anni nel nostro Paese, mentre risulta inferiore ai 25 nei Paesi scandinavi, in Francia, Germania e Regno Unito. Tutto questo si riflette, evidentemente, anche sull’età media al primo figlio che risulta la più elevata del vecchio Continente, arrivata nel 2019 a 31,3 anni, due sopra la media dell’Unione e oltre quattro anni sopra vari Paesi dell’Est Europa. Val la pena sottolineare che negli Stati dove si inizia in età meno tardiva ad avere figli è anche più favorevole l’impatto che possono avere, a parità di altri fattori, le politiche di sostegno alla natalità e di conciliazione.

L’articolo integrale è pubblicato sul numero di Maggio-Giugno 2022 di Sviluppo&Organizzazione.
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natalità, neet, Europa, Crisi demografica


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Alessandro Rosina

Professore Ordinario di Demografia alla Facoltà di Economia dell'Università Cattolica di Milano


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