C’è ancora un futuro per la DEI nell’era Trump?
Il discorso programmatico del neopresidente degli Stati Uniti Donald Trump ha destato scalpore. In particolare sul fronte della Diversity, equity & inclusion (DEI). Il nuovo inquilino della Casa Bianca ha, infatti, dichiarato apertamente il suo impegno a “fermare i woke” e a “mettere fine ai programmi di diversità, equità e inclusione nelle istituzioni pubbliche e private”, sostenendo di “credere nel sistema del merito”. Il momento clou del discorso? L’impegno a fermare i woke, un passaggio che è stato accolto dal più forte applauso della cerimonia di insediamento di Trump.
Il vento di cambiamento non si è, però, alzato in questi giorni. Per la verità nel corso del 2024, realtà come Meta, Amazon, FBI, Harley Davidson e Jack Daniels hanno annunciato la fine dei loro programmi DEI. Elon Musk, già prima, aveva dichiarato senza mezzi termini: “DEI must DIE” (“La DEI deve morire”), sostenendo che dietro questa sigla si nasconde solo il desiderio di sostituire la discriminazione contro le minoranze con quella contro le maggioranze. A questa narrazione si è aggiunta la recente sentenza della Corte suprema degli Usa, che ha vietato l’uso di criteri etnici nelle ammissioni universitarie, salvo che su base temporanea.
Questo clima di ostilità verso la DEI non nasce dal nulla: DEI, ESG e altri acronimi del cosiddetto ‘capitalismo degli stakeholder’ erano già sotto osservazione. Per esempio sono aumentati i casi di aziende denunciate, come Lululemon e PayPal per non aver raggiunto risultati tangibili attraverso i loro programmi dedicati alla diversità e all’inclusione. Nel frattempo, BlackRock ha annunciato il ritiro dalla Net zero asset manager coalition, segnando un ritorno agli obiettivi tradizionali sui risultati finanziari, a scapito dell’attenzione verso il clima e l’impatto sociale. Anche sul piano della comunicazione aziendale, le menzioni di iniziative ESG legate ai risultati trimestrali sono in calo da oltre un anno….
L’abbandono dei programmi di DEI
Dal nostro osservatorio, abbiamo supervisionato da vicino varie iniziative di DEI, osservando l’evoluzione di questo ambito complesso e in costante cambiamento. Il ruolo dei responsabili DEI con i quali collaboriamo nelle aziende è spesso estremamente vasto: si tratta di figure che richiedono non solo competenze tecniche, ma anche la capacità di agire come portavoce in contesti molto diversi tra loro. Questi professionisti si trovano a gestire una molteplicità di sfide: dal supporto a eventi esterni – per esempio le iniziative legate al pride o le manifestazioni per i diritti civili – alla progettazione e implementazione di programmi interni che spaziano dalle assunzioni inclusive allo sviluppo di carriera, dal Talent management all’accessibilità dei luoghi di lavoro. In alcuni casi, il loro ruolo si estende persino alla supervisione di attività di team building o di iniziative ESG, ambiti che richiedono competenze (e passioni) spesso molto diverse da quelle tradizionalmente legate alla DEI.
Tuttavia, stiamo vivendo un momento storico particolarmente critico per i professionisti della DEI. Molti vedono il proprio ruolo esaurirsi rapidamente o scelgono di abbandonarlo del tutto a causa delle difficoltà di dargli una forma chiara e sostenibile. Questo problema è evidente sia nelle grandi aziende globali – è il caso di Apple, che negli ultimi otto anni ha cambiato ben quattro responsabili DEI, sia nelle realtà più piccole e locali. In media, la permanenza in questi ruoli è sorprendentemente breve e raramente supera i tre anni: è questa una testimonianza delle pressioni e delle incertezze che circondano questa funzione cruciale.
L’impressione è che abbandonare la DEI sia un’ottima idea per tutti coloro i cui sforzi sono stati falsi, cioè privi di impegno e obbligati dell’effetto moda, fin dall’inizio. Questo spiegherebbe il proliferare di ritiri dai programmi DEI e la breve durata in carica dei responsabili. I comunicati stampa che accompagnano questi annunci spesso evocano più un’abiura di galileiana memoria che una decisione strategica ponderata.
Al contrario, ci sono aziende che dimostrano una volontà concreta di mantenere e far evolvere il proprio impegno verso la diversità, l’equità e l’inclusione. Realtà, per esempio, come Salesforce e Microsoft, nonostante il vento contrario, hanno dichiarato pubblicamente di voler proseguire sulla strada della DEI. Il colosso di Redmond, in particolare, rappresenta un esempio di continuità e coerenza: il suo Chief Diversity Officer è in carica da ben sette anni, a testimonianza di un impegno radicato e genuino. “Eppur si muove”, si potrebbe dire, a conferma che la DEI, se sostenuta con serietà, non è solo una scelta etica, ma anche una strategia vincente.
Collegare gli obiettivi DEI con le performance
Le realtà che abbandonano i programmi DEI spesso avevano adottato approcci controversi, come: riservare quote di assunzioni o promozioni a gruppi sottorappresentati; obbligare i manager a utilizzare etnia e genere come ‘discriminante’ tra candidati equivalenti; fissare obiettivi sociodemografici rigorosi legati alle retribuzioni e alla composizione della forza lavoro; aumentare significativamente le opportunità per i gruppi minoritari senza penalizzare le opportunità della maggioranza.
Questi approcci hanno sollevato dubbi legittimi e hanno alimentato critiche. D’altro canto, le aziende che continuano a credere nella DEI hanno scelto di enfatizzare altri aspetti, come: rimuovere linguaggi stereotipati dagli annunci di lavoro; garantire colloqui equi e legali; gestire le promozioni basandosi sul merito con criteri trasparenti e non discriminatori; creare programmi di mentoring e supporto per i gruppi sottorappresentati; attrarre talenti provenienti da percorsi educativi diversi da quelli tipici di settore; realizzare iniziative sul benessere, la sicurezza psicologica e l’inclusione. Questi ultimi aspetti sono in molti casi già oggetto di tutele di legge – dalla parità salariale all’equità nei colloqui di lavoro – e questo significa che sono principi sui cui la società basa il mercato del lavoro.
Il problema, ovviamente, non sono le quote e i target per i manager, ma il modo in cui sono definiti. Spesso, nel nostro percorso, ci siamo trovati davanti a decine di line manager obbligati a inserire risorse solo per rispettare quote e target imposti dall’alto. La critica comune riguarda la necessità di dover scegliere tra la persona giusta per raggiungere gli obiettivi di team e quella per rispettare le quote. Ecco, il tema è tutto qui: la dicotomia non deve esistere. In tutti gli altri campi si creano indicatori strumentali al raggiungimento degli obiettivi di team e aziendali; nel contesto della DEI, spesso manca un collegamento diretto tra gli obiettivi generali di performance aziendale e i Kpi o le quote da rispettare. Nel momento in cui, invece, si parte degli obiettivi dell’azienda e si declinano obiettivi sulla DEI che concorrono al raggiungimento dei target generali dell’azienda, come per magia, le opposizioni spariscono e la DEI diventa utile.
L’occasione per ricalibrare le attività
L’attacco che oggi sta subendo la DEI a livello di dibattito pubblico contesta la creazione di ‘corsie preferenziali’ di opportunità per specifiche minoranze, come se il mondo fosse stato finora un ‘paradiso meritocratico’ e le politiche di diversità e inclusione un’invasione arbitraria di giustizialismo. È importante chiarire che non è così: ridurre le iniziative DEI a una semplice distribuzione clientelare di privilegi significa fraintendere volutamente il loro scopo, la loro necessità e ignorare le sfide strettamente economiche che i contesti sociali delle economie sviluppate stanno affrontando.
Da un lato, lo scopo è semplice: un mondo con pari opportunità è la società nella quale vogliamo vivere, che sia più equa e che punti sulla vera meritocrazia. Dall’altro la necessità è intuitiva, anche se non per forza conosciuta a tutti. L’inverno demografico porterà la popolazione giovane, la forza lavoro del futuro, a essere sempre di meno: in Italia, per esempio, nei prossimi 10 anni avremo il 20% in meno di persone tra i 20-30 anni. Inoltre, la competizione globale per i talenti (che nel nostro Paese si concretizza in una fuga di cervelli ogni anno) impone già oggi alle imprese di saper ampliare la base di persone potenzialmente reclutabili.
La partecipazione al lavoro dovrà essere la più alta possibile e questo potrà accadere solo se le organizzazioni sapranno essere attraenti e accoglienti per ogni categoria sociale. Non è solo giusto: è necessario, se vogliamo continuare a vivere in una società che premia il talento e mantiene uno sviluppo umano tra i più alti al mondo. Il vero fallimento non è nelle difficoltà della DEI, ma nell’incapacità di coglierne il valore.
Nei prossimi mesi, quindi, assisteremo a molti cambiamenti, nuove ondate di tifoseria da stadio pro e contro la DEI, ma potremo vedere anche un cambiamento nella dialettica sulla questione. HR Manager e DEI Manager hanno l’occasione di ricalibrare le attività in modo pragmatico, con una narrativa diretta ed efficace, mettendo in luce il collegamento – che per chi come noi lavora sulla DEI da anni è evidente – tra sane politiche di inclusione e migliori risultati aziendali. La DEI è a un bivio: sparire del tutto o diventare un acceleratore di performance. Probabilmente vedremo qualche awards in meno, ma azioni concrete e misurabili, progetti e iniziative che veramente faranno la differenza per aziende, dipendenti e clienti.