Cervelli in fuga

Cervelli in fuga… per soldi

Alcuni studi, di recente, ci fanno sapere che nel 2022 ben 100mila italiani sono andati a lavorare all’estero. Uno su tre è laureato e in egual misura sono i diplomati. Quindi, i due terzi di questi lavoratori espatriati sono potenziali produttori di Prodotto interno lordo (Pil) che ci perdiamo, e che sono solo parzialmente rimpiazzabili in termini di contribuzione al Pil da altri lavoratori con bassa scolarità. Come mai così tanti italiani vanno a lavorare all’estero? Per due semplici motivi correlati tra loro, cioè salari più alti e contenuti di lavoro a maggior valore. Questa è esattamente la diagnosi della situazione economica italiana: il valore aggiunto creato delle nostre posizioni di lavoro è troppo basso rispetto a quello degli altri Paesi e, di conseguenza, non consente retribuzioni più elevate. Le aziende, per questo motivo, non hanno i margini sufficienti per aumentare significativamente i salari. Inoltre, la produttività dell’ora lavorata in Italia è ferma ai valori di oltre 50 anni fa (nonostante i programmi di finanziamento per svilupparla, come il recente piano Industria 4.0), mentre in Paesi come Spagna, Francia e Germania è cresciuta di più del 60%.

Ciò vale sia per lavori di alta specializzazione, sia per lavori operativi e più tecnici (sanità compresa). Difficile dire che tale bassa produttività sia ascrivibile al lavoratore. Infatti, il problema generale non è legato alla loro efficienza, ma al basso valore di ciò che producono, determinato dalle aziende e non dai lavoratori. Mentre negli altri Paesi tale valore ha continuato ad aumentare nel tempo, da noi ciò non è accaduto. Prova ne è anche il nostro Pil reale pro capite è praticamente fermo da oltre venti anni e più, mentre in altre economie è aumentato del 30%. Senza aumentare il valore prodotto non si possono aumentare le retribuzioni in modo sostenibile. Nel breve termine, ciò può accadere solo investendo negli stipendi grazie alle casse dello stato, oppure riducendo i margini delle imprese attraverso la riformulazione dei contratti nazionali e con eventuali integrazioni da parte delle imprese più ricche.

Aumentare la consapevolezza delle imprese

Purtroppo, nel mondo imprenditoriale, spesso manca la consapevolezza relativa alla necessità di aumentare il valore prodotto dalle nostre imprese. Talvolta sembra persistere la credenza per cui la produttività si aumenti solo aumentando l’efficienza (come è avvenuto in passato e con presupposti economici differenti). Peraltro, se la leva principale fosse l’efficienza, abbiamo dimostrato di non riuscire a intervenire da 50 anni.  Si tratta di capire, invece, che occorre produrre prodotti e servizi più innovativi (cioè a maggior valore percepito dal mercato) e soprattutto adottare modelli di business con maggior valore aggiunto, investendo nell’innovazione e nella servitizzazione. Soprattutto ora che le opportunità offerte dall’Intelligenza Artificiale e dalla digitalizzazione sono notevoli.

Esse consentirebbero, innanzitutto, di superare la fase del puro e commerce, che ha penalizzato fortemente le nostre catene del valore e commerciali, mettendo le nostre Piccole e medie imprese (PMI) al servizio di player globali, o al servizio di filiere in mano a gruppi stranieri (si pensi al Fashion e all’Automotive). Guardando agli ultimi 30 anni, per quanto riguarda lo sviluppo dei modelli di business, abbiamo perso numerosi treni e non è possibile proseguire. Sicuramente, non ci aiutano il fatto che i nostri imprenditori risultino solamente al 36esimo posto mondiale in propensione al rischio, né tantomeno la completa assenza di strategie industriali da parte dei nostri governi.

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Giorgio Merli

Giorgio Merli è autore di numerosi libri e articoli sul management pubblicati in Europa e negli Usa; è consulente di multinazionali e Governi, oltre che docente in diverse università in Italia e all’estero. È stato Country Leader di PWCC e di IBM Business Consulting Services

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