Che cosa ci rimane oltre il lavoro?
Che cosa faremo quando non dovremo più lavorare? Immaginando un futuro sempre più automatizzato, il regista Erik Gandini ha messo persone di culture ed età diverse di fronte a questo scenario per indagarne i pensieri e le preoccupazioni. Il risultato è After work, un docu-film distribuito nell’estate 2023.
La pellicola dell’artista svedese, ma nato a Bergamo, è un viaggio attraverso quattro Paesi differenti (Corea del Sud, Stati Uniti, Kuwait e Italia), ciascuno caratterizzato da una specifica cultura lavorativa. In Asia e in America settentrionale l’occupazione sembra essere l’unico perno attorno a cui ruota la vita delle persone, mentre nello Stato arabo il lavoro è una finzione, un’attività completamente svuotata di significato: il Kuwait si è molto arricchito grazie ai giacimenti di petrolio, tanto che ai cittadini – la maggior parte sono impiegati pubblici – è chiesto di ‘far finta’ di lavorare in cambio di un reddito garantito.
L’Italia è invece presentata attraverso una complessità di sfumature e il tema della cultura del lavoro è messo in risalto principalmente attraverso la dicotomia generazionale. Da un lato c’è il fenomeno prettamente giovanile dei Neet (“Not in education, employment or training”): il Rapporto Istat dal titolo Livelli di istruzione e ritorni occupazionali pubblicato a ottobre 2023 e in riferimento all’anno 2022 evidenzia che il 19% dei 15-29enni italiani non è attivo in percorsi di istruzione, lavoro o formazione; è un risultato che, a livello europeo, è decisamente più elevato della media (11,7%) e inferiore soltanto alla Romania (19,8%). Dall’altro lato, ci sono le testimonianze di una generazione più adulta di infaticabili lavoratori: imprenditori ‘vecchio stampo’, ma non solo (è particolare la scelta di intervistare anche alcune persone aristocratiche e molto ricche che durante il giorno si tengono impegnate, con lavori più o meno ‘formali’).
Vivere per lavorare o lavorare per vivere?
Il divario generazionale emerge anche nella narrazione riservata alla Corea del Sud, dove lavorare sodo è l’unico motivo di orgoglio (e di onore). Le scene dedicate a questa cultura lavorativa ruotano attorno a un uomo in giacca e cravatta davanti al computer in un ufficio asettico, che preme sui tasti quasi come fosse un automa, con un’espressione stanca e ‘spenta’. Al suo fianco c’è sua figlia, l’unica dei due a parlare: la giovane non riconosce il senso del lavoro di suo padre, non ne comprende il valore e non riesce a giustificarlo: “Questa non è la vita che voleva”, commenta sconsolata.
La Corea è stata a lungo un Paese molto povero e quando c’è stato il boom economico (che ha visto protagonisti colossi come Hyundai, Lg e Samsung) i sudcoreani hanno inteso il lavorare tanto come una questione di onore. Secondo le rilevazioni dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse), nel 2022 ogni persona in Corea ha lavorato in media 1.901 ore (contro le 1.811 degli Stati Uniti, le 1.694 degli italiani e le 1.341 dei tedeschi, il Paese che lavora meno in termini di tempo tra i cittadini dell’area Ocse); per anni la settimana lavorativa è stata di 68 ore, distribuite su sei giorni lavorativi; ora si è passati a 40 (più 12 di straordinari) e il Governo coreano sta mettendo in atto misure per disincentivare l’overworking. Su questo aspetto, il documentario fa riferimento all’istituzione del ‘diritto al riposo’ e al progetto “Pc off”, che prevede lo spegnimento automatico di tutti i computer dell’ufficio alle ore 18.
In Corea queste iniziative intendono avere un risvolto di sostenibilità sociale e invertire la rotta rispetto al tasso di fertilità più basso al mondo (dal 1960 al 2021 si è registrato un calo dell’86%, passando da quasi sei nascite per donna a 0,81), le centinaia di morti annuali attribuite al superlavoro e un tasso di suicidi tra i più alti a livello internazionale: se dal 1990 il tasso medio di persone che si tolgono la vita nei Paesi Ocse è diminuito del 16%, in Corea è aumentato del 230%, con circa 36 suicidi quotidiani.
A Seul lo stacanovismo è quindi nato da un’eccessiva condizione di povertà, mentre negli Stati Uniti è scaturito dal bisogno di tenere sotto controllo l’ansia di non ‘guadagnarsi il paradiso’. Non è un mistero che la cultura del lavoro americana ha risentito dell’etica protestante (in particolare, calvinista), che si è insediata in Usa fin dall’arrivo dei primi padri pellegrini. Fino al Seicento, infatti, il tempo libero era una benedizione, poi i valori si sono invertiti: il calvinismo individuava il duro lavoro come segno di grazia divina e riconosceva in uno stile di vita sobrio e diligente le conseguenze di essere gli ‘eletti’, cioè predestinati a essere salvati.
Consapevoli di questo contesto storico, forse è più facile comprendere il protagonista statunitense che, tra un’intervista e l’altra, ripete con convinzione “I’m so busy”, come se fosse un mantra (appunto, con funzione calmante). Nel documentario si racconta che nel 2018 i lavoratori americani hanno rinunciato a 578 milioni di ore di ferie, perché non ne sentivano il bisogno. Eppure quella frase che torna continuamente (“Sono così impegnato; ho tante cose da fare”) sembra stridere: l’uomo deve autoconvincersi di esserlo per sentire di avere un senso? Lo dice per sentirsi adeguatamente ‘bravo’? Oppure lo fa per giustificare la sua incapacità a riposare?
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Classe 1996, Martina Midolo è giornalista pubblicista e si occupa di social media. Scrive di cronaca locale e, con ESTE, ha potuto approfondire il mondo della cultura d’impresa: nel raccontare di business, welfare e tecnologie punta a far emergere l’aspetto umano e culturale del lavoro.
Superlavoro, senso del lavoro, etica del lavoro, After work