Chi decide che cosa si può dire sui social network?
La premessa è d’obbligo, anche solo per evitare fraintendimenti: è ferma e totale la nostra condanna all’assalto al Congresso Usa da parte dei supporter di Donald Trump. Così come è innegabile l’atteggiamento dell’ex Presidente Usa che, non riconoscendo la vittoria dell’avversario Joe Biden – la cui elezione è stata nel frattempo ratificata – ha contribuito a generare l’attuale clima di forte tensione nel Paese.
Proprio per questo motivo, Twitter e Facebook (compreso Instagram) hanno deciso di bloccare gli account di Trump, impedendogli di inviare messaggi ai suoi milioni di follower. Evidentemente pesa il fatto che Trump appartenga ormai al passato, visto che nell’autunno 2019 i vertici di Twitter avevano negato la richiesta di Kamala Harris – oggi Vicepresidente al fianco di Biden – di chiudere il profilo dell’inquilino della Casa Bianca. Ora, lo scenario è cambiato – certo quanto successo al Congresso ha avuto il peso maggiore sulla decisione – e Trump, scrive la stampa Usa, rischia di non poter accedere in modo permanente ai social se dovesse continuare a violarne le regole.
La vicenda permette di tornare, ancora una volta, sulla questione del controllo dell’agorà digitale su cui Parole di Management era tornata proprio nel 2019 con un commento de Il Guastafeste. I social network sono solo apparentemente spazi liberi e democratici; in realtà le piattaforme su cui ogni utente regala i propri dati e produce contenuti hanno proprietari che ne decidono le regole e le sorti. E possono scegliere di cambiare i patti in modo unilaterale, senza la cui accettazione è impossibile continuare a utilizzare i propri account. E a decidere sono i proprietari stessi delle piattaforme oppure gruppi di ‘esperti’ di cui non si conosce l’identità. Oltre a Trump, quanti sono gli account, anche di personaggi noti, che diffondono notizie prive di fondamento? C’è poi da dire che, lasciati liberi di parlare, i personaggi pubblici restano comunque interessanti. Perché, dunque, censurarli?
Costretti ad accettare le regole del software
La Quarta rivoluzione digitale ha imposto tempi di reazione rapidissimi e a livello software questo si traduce nella diffusione di aggiornamenti, spesso, non debitamente testati e dunque ancora in versione ‘beta’; in fondo basta un clic per aggiornare i programmi in ogni angolo del Pianeta. A chi non è mai capitato di dover scaricare l’ultimo aggiornamento disponibile di un software, ritrovandosi all’improvviso in un ambiente non più familiare? Chi ha deciso che la versione precedente di un programma usato quotidianamente non sarebbe più stata performante per le nostre necessità? E chi dice che le modifiche introdotte siano adeguate al nostro bisogno?
È un po’ quel senso di spaesamento che si ha quando, dopo un periodo lontani dalla propria città – magari per le ferie estive – si scopre che sono stati invertiti i sensi di marcia di qualche via secondaria che si era soliti percorrere per evitare il traffico. Chi ha deciso che, dall’oggi al domani, quella strada dovesse cambiare il senso di marcia?
Bloccare i messaggi che incitano la violenza e sono razzisti (ma l’elenco sarebbe lungo) è certamente corretto. Ma resta il dilemma di chi debba prendere le decisioni. Nel suo libro Le cinque leggi bronzee dell’era digitale – E perché conviene trasgredirle (Guerini e Associati, 2020), Francesco Varanini – Direttore di Persone&Conoscenze, rivista edita da ESTE, editore anche del nostro quotidiano – si interroga sulle stesse tematiche, scrivendo che oggi c’è una “élite che definisce se stessa illuminata e una massa di esseri umani in sostanziali condizioni di sudditanza, di minorità, incapace di cerca e di godere di spazi di libertà”. Oggi di questa élite fanno parte “i tecnici che presiedono alla costruzione e al governo della machinery digitale”. E che decidono chi può parlare e chi può tacere.
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