Pil_Italia_Crisi

Chi dorme non piglia Pil

Nella nostra incapacità strategica di cambiare i paradigmi del nostro sistema produttivo, negli ultimi 30 anni abbiamo sperato (più o meno inconsapevolmente) di tenere in piedi il nostro sistema industriale agganciandoci ad altre economie (specialmente quella tedesca e quella francese). È chiaro (e lo era fin dall’inizio per chi avesse ragionato un po’) che questa è stata una strategia molto miope, visto che a noi sono rimaste solo le fasi produttive delle loro catene del valore (per esempio nell’Automotive e nel Fashion). Queste ultime, pero, costituiscono la parte minore del valore pagato dal mercato per tali prodotti e quindi la nostra economia e il Prodotto interno lordo pro capite si sono impoveriti.

C’è un altro problema profondo che, purtroppo, coincide con un inconsapevole vanto italiano: siamo la seconda economia europea nel Manufacturing. Ora, forse, tutti dovrebbero rendersi conto che nel nuovo mondo del business ciò che conta è sviluppare e avere servizi innovativi e high tech, non sistemi produttivi tradizionali. Questi ultimi non devono essere smantellati, ma deve essere chiaro e condiviso il fatto che lo sviluppo avviene ora in altri settori. Prova ne sia che le economie che in questo momento sono più in crisi nel mondo sono quelle dei leader mondiali del Manufacturing, cioè Giappone (in crisi profonda) e Germania (il Paese attualmente più in crisi in Europa). E l’Italia? Continuare a basare la nostra economia sul Manufacturing ci ha portato inevitabilmente al degrado relativo degli ultimi tre decenni, mentre gli altri Paesi hanno modificato nel frattempo i modelli di business.

Ma allora come si spiega il fatto che in questo momento, dopo la Spagna, siamo il Paese con la migliore performance di aumento del Pil? Si tratta in realtà di numeri insignificanti rispetto ai recuperi necessari (bene ricordare che con i lockdown avevamo perso il 10% del Pil e quindi è ovvio che dobbiamo recuperare più della Germania che aveva perso solo il 4%). Ma questa performance è l’occasione per evidenziare un altro dei grossi errori fatti nel passato e che continuiamo a fare. Se la Spagna sta aumentando il Pil senza un programma di incentivazione, noi lo abbiamo fatto grazie ai miliardi immessi nel sistema attraverso le incentivazioni edilizie e ai soldi erogati attraverso il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr): senza questi fondi, l’aumento sarebbe decisamente negativo (sarebbe in linea in linea con l’andamento storico tendenziale che ci ha visto perdere il 30% di Pil rispetto ai Paesi vicini negli ultimi anni).

Dovrebbe essere chiaro a tutti che immissioni una tantum del tipo superbonus o il Pnrr non generano capacità di Pil strutturalmente sostenibile, ma solo un aumento negli anni del finanziamento stesso. Si tratta, infatti, di aumenti non ripetibili; anzi è ovvio aspettarsi una riduzione del Pil una volta terminata la ‘droga’ del finanziamento. Lo stesso Pnrr dovrebbe contribuire con un aumento del Pil di solo un quinto della cifra spesa (stime della Commissione europea): è la peggiore percentuale attesa rispetto agli altri Paesi. E comunque, anche in questo caso, si tratta, nella quasi totalità, di aumenti di Pil relativi al periodo di erogazione, che sono solo in piccola parte perpetuabili.

Una piramide demografica insostenibile

Per quanto riguarda la nostra consapevolezza a riguardo, su questo aspetto gioca anche la bassa competenza economica (o le motivazioni politiche) di chi commenta i fatti economici, e cioè la stampa. Ciò che serve al Paese è l’aumento della capacità di sviluppo del Pil (ripetibile e aumentabile), non un aumento del Pil attuale non ripetibile. Questa ignoranza è particolarmente grave nel momento in cui si deve decidere dove e come investire per aumentare la capacità competitiva e di sviluppo del Paese. Su questo aspetto non vedo alcuna proposta seria e intelligente: ci sono solo proposte e richieste sul come rimediare ai problemi esistenti, senza considerare che la priorità dovrebbe essere, invece, di rimuovere le cause di tali buchi e di trovare il come attivare nuove capacità di sviluppo.

Non facendo nulla a questo proposito, costringeremo i nostri nipoti a dover far fronte ai nostri ulteriori ‘pagherò’ (debiti) che lasciamo loro in eredità. E ciò, purtroppo, solo per coloro che rimarranno a lavorare in Italia nelle condizioni che le ultime due generazioni hanno lasciato loro. Infatti ben 100mila persone lasciano l’Italia ogni anno per lavorare altrove. Il perché dell’emorragia delle nostre migliori risorse è costituito dalle basse retribuzioni che possiamo offrire loro: queste ultime, a loro volta, sono causate proprio dagli elevati oneri sociali e dai debiti che abbiamo lasciato sulle loro spalle e dai bassi valori aggiunti dei nostri prodotti e servizi che non danno margini per significativi aumenti. Il tutto aggravato da una continua riduzione della popolazione italiana, con conseguente aumento percentuale dei pensionati rispetto ai lavoratori.

Il tema della sostenibilità della piramide demografica è cruciale per il nostro futuro. Una leva fondamentale è costituita dalla capacità di gestione economico-sociale dell’immigrazione. Quest’ultima dovrebbe risultare indispensabile, ma potrebbe a sua volta tramutarsi in un aumento della povertà e nella riduzione dei salari medi se gestita come fatto finora (e anche dal come è prospettato da chi ne promuove l’aumento senza un modello economico di integrazione). Aspetti etici a parte, occorre un modello di sviluppo che chiarisca come l’immigrazione possa dare contributi oltre ai costi per assorbirla.

Attirare nuova forza lavoro

Per esempio, per la Sanità la domanda da farsi è: quanto il contributo fiscale degli immigrati compenserà i maggiori costi e gli impegni numerici per la loro tutela sanitaria? E come si concilierà con la necessità di elevare i salari medi, dato che la tipologia di immigrati da noi attirati non consentirà retribuzioni attrattive anche per loro? Siamo pronti ad avere una situazione socio-economica con una popolazione in media più povera? Si consideri peraltro che nel mondo i Paesi con maggior disuguaglianza (indice di Gini) sono i Paesi più poveri. Sicuramente i fenomeni di disuguaglianza devono essere gestiti, ma è molto più facile farlo in una economia crescente che in una situazione statica o calante.

Tornando al tema degli immigrati, non sarebbe il caso di pensare a come orientare meglio la loro integrazione? Per esempio Germania, Svizzera e Svezia hanno aggredito il problema alla fonte, tentando di conciliare il problema della piramide demografica con quello della tutela dello sviluppo economico e dei salari medi: integrano solo immigrati di alto livello scolare e specialistico. Siamo in grado di fare qualcosa di simile con i nostri bassi salari poco attraenti anche per loro? Non a caso molti immigrati (quelli che potenzialmente sono i ‘migliori’ per contribuire alla nostra economia) ci vedono come un Paese ‘di passaggio’.

Penso che occorra aprire una ampia e intelligente discussione a riguardo, che superi le visioni ideologiche. Altrimenti quel Paese ‘socialmente giusto’ (auspicato dai più), non si realizzerà mai e morirà  anche l’altro, cioè il Paese reale, perché non più sostenibile. Perché non se ne parla? Siamo incoscienti e irresponsabili? Probabilmente siamo semplicemente “sonnambuli e inerti” come ci ha definito il Censis: viviamo cioè l’attuale situazione in modo non reale, ma del tutto virtuale, senza renderci conto di quale sia effettivamente la situazione socio-economica italiana (per questo siamo stati etichettati come “sonnambuli”), e così, molto ‘comodamente’ e senza sensi di colpa, non riteniamo di attivarci per cambiare le cose (da cui la definizione di “inerti”).

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Giorgio Merli

Giorgio Merli è autore di numerosi libri e articoli sul management pubblicati in Europa e negli Usa; è consulente di multinazionali e Governi, oltre che docente in diverse università in Italia e all’estero. È stato Country Leader di PWCC e di IBM Business Consulting Services

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