Chi ha paura della cometa?
Per portare temi impegnativi all’attenzione di un grande pubblico è necessario banalizzarli o ridurli al grottesco? Un cast con Leonardo Di Caprio, Jennifer Lawrence, Meryl Streep, Cate Blanchett e pure Ariana Grande, combinato con la diffusione sulla piattaforma Netflix nel periodo natalizio, ha trainato il grande successo di pubblico del film Don’t look up, scritto e diretto da Adam McKay. In America, Europa, Italia i media ne hanno ulteriormente enfatizzato la rilevanza, spinti anche dai riferimenti a temi assai vivi e attuali come pandemia, disastri ambientali, crisi climatica, vacuità e corruzione della politica, meccanismi perversi dei media, strapotere dei grandi imprenditori tecnologici.
La storia della dottoranda e del suo professore-scienziato che scoprono una cometa che investirà la terra in pochi mesi, senza trovare ascolto se non in chiave opportunistica negli ambienti che contano, politici, mediatici, imprenditoriali, ecc., può essere divertente. Ancora di più, se raccontata con ironia e con il coinvolgimento di attori rinomati. Occorre anche riconoscere che il grottesco è qualche volta un fenomeno che irrompe nella realtà dei nostri giorni, tanto che la figura presidenziale interpretata da Meryl Streep può apparire una versione femminile di un personaggio reale che abbiamo conosciuto.
Istituzioni e luoghi comuni
Tuttavia, sono troppi gli stereotipi ricalcati dalla trama. Politici attenti ai sondaggi elettorali più che ai problemi reali. Potere nascosto delle lobby. Corruzione sistematica. Complotti vari. Giornalismo e media prigionieri di pubblicità e audience. Social network ‘impazziti’, ma dominati alla fine dai signori degli algoritmi e dai grandi imprenditori tecnologici. Questione climatica ed emergenze di vario genere agitate in funzione di piccoli interessi. Su nessuno di questi temi il film apre un discorso originale. E si limita quindi a lisciare il pelo a opinioni diffuse, povere di pensiero, cariche di ambiguità e di un vago sapore nichilista.
Con questi limiti, Don’t look up rappresenta un segno dei tempi. Riconosce un senso di smarrimento e sconcerto condiviso a diversi livelli. Recepisce una sfiducia generalizzata nelle classi dirigenti e nell’utilizzo delle innovazioni tecnologiche a vantaggio della società e delle persone. Manifesta così quella scarsa capacità di valutare seriamente l’operato di chi governa istituzioni e organizzazioni, come anche di percepire gli spazi di responsabilità (per gli addetti ai lavori, ma anche per tutti noi), che sono aperti dallo sviluppo dei social network e più in generale di tecnologie innovative.
C’è quindi il rischio effettivo che il grande pubblico aderisca acriticamente a stereotipi che falsificano la lettura di questioni e situazioni complesse. Come è il caso del funzionamento delle istituzioni, che non sono solo uno spazio di libero movimento per leader narcisisti o nevrotici, o un serbatoio di finanziamenti cui attingere, ma una costruzione sociale che si alimenta di competenze tecniche e a cui possiamo tutti contribuire con i nostri comportamenti. In una logica di intrattenimento può avere il suo senso evocare grandi disastri incombenti e ironizzare sulle inerzie delle varie componenti sociali nel fronteggiarli. E forse innesca pure qualche riflessione negli spettatori.
Ma film come questo lasciano inesplorato tutto il territorio intermedio tra la moltitudine dei comuni cittadini e i pochi personaggi esposti ai riflettori della comunicazione mediatica. In mezzo c’è un apparente vuoto, uno spazio opaco dove istituzioni e organizzazioni svolgono il loro prezioso e spesso incompreso lavoro; stanno qui le risorse decisive per affrontare non solo le crisi più o meno impreviste, ma le grandi questioni dello sviluppo sostenibile e del benessere sociale.
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