Ci vorrebbe lo storytelling per i prodotti storici del Made in Italy
Il tessuto industriale e artigianale italiano è un patrimonio sconfinato più propenso ad avere a che fare con la concretezza di un prodotto ben fatto che non con le parole e le immagini, più labili ed evanescenti. Questo fa sì che dei prodotti manifatturieri che lo compongono se ne parli per la maggior parte attraverso numeri e statistiche da un lato e, dall’altro con impolverati cataloghi vintage, narrazioni che sembrano richiamare il passato anche quando si riferiscono in realtà al presente. Per riportare nel loro tempo queste produzioni e ridare a oggetti tutt’altro che sbiaditi il colore di cui a volte ci si dimentica è nato Fattobene, un progetto di Anna Lagorio e Alex Carnevali che da sfida editoriale è diventato uno shop online dove trovare manufatti attualissimi che possono avere fino a 300 anni di storia.
Lei giornalista, lui fotografo, dopo un viaggio nel Sud Italia, nel quale si sono imbattuti in oggetti di alta qualità spesso sconosciuti al di fuori della regione se non della provincia di pertinenza, hanno deciso di raccoglierli in un archivio online di foto e racconti, uno spazio virtuale dove riunire le eccellenze italiane ancora in produzione e le loro storie. A partire da pochi oggetti, il catalogo è cresciuto, grazie anche alle segnalazioni di persone che proponevano i prodotti dei loro territori, contribuendo a dare rappresentanza all’interno del progetto a tutte le regioni d’Italia.
Ma tra i messaggi che i due ricevevano c’erano anche quelli di persone interessate a trovare gli oggetti rappresentati, che chiedevano dove potersi procurare, per esempio, la saponetta Primula, la colla Coccoina, i fermagli Leone o le matite Tassotti. Una domanda alla quale rispondere non è facile considerando che la maggior parte di questi oggetti ha una distribuzione molto classica che passa per cartolerie, profumerie e ferramenta, negozi che stanno gradualmente scomparendo, lasciando senza casa anche questi prodotti. Da qui l’idea di rendere Fattobene anche uno shop online in cui dare una seconda chance a oggetti senza tempo.
“Volevamo creare un ponte tra il passato industriale italiano e la contemporaneità, trovare un modo diverso di parlare del tessuto industriale del nostro Paese, un modo più allegro, più leggero e positivo”, racconta Lagorio. L’imperativo, più che categorico, è stato subito non comunicare in alcun modo questi prodotti in modo vintage: non fanno parte del passato, ma del presente. Sono espressione di un circuito imprenditoriale, un tessuto industriale vitale, anche se il risultato che vediamo è identico a quello di un secolo fa.
Prodotti iconici e senza tempo
Il vintage non renderebbe onore a oggetti che sono ancora in produzione, uno dei criteri essenziali per poter rientrare nel catalogo. La regola numero due è, a beneficio dell’obiettivo della macchina fotografica di Carnevali, che abbiano un buon design e, infine, che il loro packaging non si sia modificato nel tempo. La patina démodé è bandita anche dai testi che accompagnano ogni prodotto: il linguaggio è fresco, contemporaneo, volto a suggerire come anche un oggetto che ha 200 anni possa convivere con il mondo di oggi.
“È un po’ una sorta di caccia al tesoro, invitiamo a guardare le cose che ci appartengono da sempre in un modo moderno, pulendoci gli occhi dalla nostalgia per il passato. Vogliamo portare l’attenzione sul fatto che siamo circondati da oggetti storici a cui non facciamo normalmente caso solo perché siamo abituati. Tanti li conosciamo da quando eravamo bambini”, spiega Lagorio. Agli ideatori di Fattobene piace sottolineare che si tratta di oggetti iconici, alcuni nati addirittura prima dell’Unità d’Italia, che hanno resistito alla prova del tempo e alle guerre. Hanno un reale valore nell’uso quotidiano e per questo sono ancora qui.
Che oggetti con una storia così lunga siano anche incredibilmente interessanti da raccontare lo ha notato anche il Museum of modern art (Moma) di New York, che al Salone del mobile a Milano, ha proposto a Lagorio e Carnevali, che si trovavano lì con i loro oggetti, di aprire un corner all’interno del loro design store che fosse un racconto dell’Italia attraverso i suoi manufatti. Il messaggio che volevano comunicare, una sorta di tributo alla bellezza del nostro Paese anche nelle piccole cose, era arrivato a destinazione e non in una meta qualunque. Ricorda Lagorio: “Le persone ci dicevano che sembrava di fare un viaggio in Italia. Posizionati gli uni accanto agli altri questi oggetti storici hanno effettivamente un grande impatto visivo. Considerando che erano accompagnati anche da un breve racconto della loro storia, sembrava di entrare non solo in un negozio, ma anche in una sorta di museo di cultura materiale”.
Oggetti controcorrente di aziende ‘di una volta’
Prima che esistesse il concetto di marketing o comunicazione questi oggetti avevano già un potere comunicativo fortissimo. Dal packaging al carattere tipografico, dai colori all’utilizzo di buoni materiali: sono estremamente accattivanti. “Al Salone del mobile le persone trascorrevano molto tempo a guardarli e a studiarli. Molti studenti di design, spesso di scuole straniere, li hanno comprati dicendo che volevano portarli a casa per analizzarli. Sono oggetti che, in qualche modo, parlano; avrebbero potuto essere raccontati in modi molto diversi dal nostro e mantenere la loro forza espressiva”, precisa Lagorio.
D’altra parte, non tutte le aziende che li producono sono particolarmente propense a valorizzarsi. La loro ritrosia nel raccontarsi, è il limite che Lagorio individua dietro a queste realtà che hanno una storia centenaria, reale, da mettere in mostra, ma la danno per scontata, non pensano che sia una cosa importante. Un vero peccato considerando che, fa notare la giornalista, ci sono aziende giovanissime che hanno fatto del racconto, dello storytelling, la quintessenza del loro marketing.
Forse quella narrazione vecchio stile che spesso viene fatta di loro è la stessa che queste aziende tendono ad attribuirsi, al punto che – ci viene raccontato – molti dei dirigenti coinvolti non riuscivano a capire come mai la coppia dietro al progetto fosse interessata a loro. Il contesto in cui li portavano e il modo in cui li raccontavano sembrava loro molto ‘strano’. Con il tempo e con quell’ingrediente essenziale che è la fiducia hanno capito che ci sono persone giovani interessate a loro e ai loro prodotti.
Dal digitale il progetto punta al reale
Aziende come queste restano, a ogni modo, dal punto di vista di Lagorio, un ‘controtrend’ sotto diversi punti di vista. Uno è il concetto del ‘garantito a vita’, l’idea che questi oggetti siano prodotti con amore e sotto la luce guida della qualità, con l’obiettivo di durare per sempre, in antitesi con le leggi del capitalismo usa e getta dominante. Anche la concezione stessa dell’organizzazione e delle dinamiche aziendali è controcorrente, molto più vicina alle fabbriche dei primi del Novecento.
“Le aziende sono come grandi famiglie e in molti casi sembra di entrare in una macchina del tempo, con persone che lavorano lì da tutta la vita. La relazione con chi lavora è molto diversa rispetto a quella a cui siamo abituati oggi, con contratti brevi e a tempo determinato. In queste imprese vige un rapporto un po’ alla Olivetti, di grande cura. È un modello a cui guardare, dove sembra quasi che la globalizzazione si sia dimenticata di arrivare”. È proprio a quell’epoca, in effetti, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, che risalgono, come origini, la maggior parte degli oggetti raccolti. Anche se, spulciando quello che sembra quasi un sito di design essenziale, si può tornare indietro anche di oltre 300 anni come nel caso della liquirizia Amarelli, originaria del 1700.
Il prossimo obiettivo da realizzare è aprire un negozio fisico e renderlo una sorta di quartier generale del Made in Italy storico. La pandemia ha, però, rallentato tutto e il piano è cristallizzato, in attesa di tempi migliori. Nel frattempo, i creatori del progetto stivano le merci in un fienile adibito a magazzino nella campagna toscana, dove da Milano si sono trasferiti. Non è semplice decifrare cosa succederà anche solo tra un mese, ma si può sempre stemperare l’incertezza sorseggiando una cedrata Tassoni o sgranocchiando una pastiglia di zucchero Leone.
Laureata in Filosofia, Erica Manniello è giornalista professionista dal 2016, dopo aver svolto il praticantato giornalistico presso la Scuola superiore di Giornalismo “Massimo Baldini” all’Università Luiss Guido Carli. Ha lavorato come Responsabile Comunicazione e come giornalista freelance collaborando con testate come Internazionale, Redattore Sociale, Rockol, Grazia e Rolling Stone Italia, alternando l’interesse per la musica a quello per il sociale. Le fanno battere il cuore i lunghi viaggi in macchina, i concerti sotto palco, i quartieri dimenticati e la pizza con il gorgonzola.
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