Coltivare le abilità innate per avere successo
Alcune persone mostrano abilità straordinarie già in età precoce nello sport, nelle arti, in un mestiere o in qualsiasi altro ambito. Mentre ciò può portare genitori, allenatori o mentori a credere di essere testimoni di qualcosa di molto speciale, la realtà è che questa attitudine raramente si traduce in successo duraturo. Lo sviluppo del talento è imprevedibile e la precocità è, nella migliore delle ipotesi, un modesto indicatore di potenziale.
Uno studio sullo sviluppo dei talenti mostra che solo il 20% di coloro che all’età di 17 anni rientravano tra i primi 50 velocisti del mondo, ci è rimasto da adulto. E nelle attività sportive in cui le abilità richieste sono più complesse, come per esempio il salto con l’asta, le differenze sono maggiori: solo l’8% dei saltatori e il 16% delle saltatrici che erano tra i primi 50 a livello mondiale all’età di 16 anni sono rimasti alla stessa posizione anche una volta cresciuti.
Il tennis come metafora della carriera
A riflettere sull’argomento è stato, affidando i suoi pensieri alla testata statunitense Forbes, il noto allenatore di tennis Gabe Jaramillo, che lungo il suo percorso ha allenato 11 dei tennisti numero uno al mondo e dozzine dei primi 10 giocatori del mondo. Dal suo punto di vista, la maggior parte dei giovani più promettenti e capaci di raggiungere in fretta ottimi risultati non aveva il potenziale o la capacità di sfruttare il proprio talento. Nel tennis d’élite, man mano che i giocatori avanzano, hanno bisogno di un più acuto senso della strategia, di capire come tenere d’occhio il campo e come valutare gli avversari. Servono insomma più strumenti di quanti ne possedessero la gran parte degli enfant prodige che Jaramillo ha allenato.
I giocatori che hanno finito per diventare grandi campioni, al contrario, ha ricordato il coach, potrebbero non essere stati brillanti da giovani, ma avevano un maggiore desiderio di imparare, una determinazione più spiccata e la capacità di lavorare più duramente di tutti quelli che li circondavano. A loro non importava molto di ciò che gli altri pensavano delle loro prestazioni, non avevano paura di correre rischi o commettere errori. Erano pazienti e concentrati sui loro miglioramenti.
Distinguere il talento dall’impegno
Secondo l’analisi di Jaramillo, a compromettere il futuro successo dei giovani prodigi sono diversi elementi tra i quali, per esempio, la competizione spietata. Nei circuiti professionistici le giovani stelle si trovano improvvisamente ad affrontare avversari agguerriti, molti dei quali si battono per il loro sostentamento economico. Uno scenario di questo tipo è comune in molte aree professionali, anche anni luce distanti dallo sport. Inoltre, nelle prime fasi di una carriera si possono avere alcuni punti forti, ma quando si raggiungono livelli più alti si fa necessario un assortimento più ampio di abilità e un set di strumenti più completo. Chi si concentra nel coltivare tutte quelle diverse abilità diventa, ha ribadito Jaramillo, un grande professionista; coloro che si focalizzano solo su ciò che li ha inizialmente portati al successo, invece, falliscono e le loro debolezze vengono a galla.
Un altro elemento che interviene a scalfire il percorso dei giovani prodigi è la paura che si insinua quando la posta in gioco è più alta, considerando anche che con il passare del tempo si perde quella sensazione di spensieratezza e libertà che consente di dare tutto o di improvvisare una mossa strategica audace. Ha poi fatto notare Jaramillo che i giovani più promettenti nel definire il loro stile e la loro tattica cercano di imitare i campioni che più ammirano; ma adottare l’approccio di qualcun altro potrebbe non essere una grande idea.
Non è detto, però, che tutti gli enfant prodige debbano bruciarsi. Questo perché la predisposizione resta un ottimo prerequisito per un grande successo. È fondamentale, tuttavia, ha sottolineato il coach nel delineare le basi di un buon allenamento, non fermarsi alle innate prestazioni brillanti, che dovrebbero essere viste come un punto di partenza. Da studiare con cura per determinare se si tratta di solo talento o anche di potenzialità pronte a esplodere.
Laureata in Filosofia, Erica Manniello è giornalista professionista dal 2016, dopo aver svolto il praticantato giornalistico presso la Scuola superiore di Giornalismo “Massimo Baldini” all’Università Luiss Guido Carli. Ha lavorato come Responsabile Comunicazione e come giornalista freelance collaborando con testate come Internazionale, Redattore Sociale, Rockol, Grazia e Rolling Stone Italia, alternando l’interesse per la musica a quello per il sociale. Le fanno battere il cuore i lunghi viaggi in macchina, i concerti sotto palco, i quartieri dimenticati e la pizza con il gorgonzola.
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