Come tornare al lavoro dopo la maternità con la giusta work-life balance
Nel Regno Unito, presso il Center for discovery brain sciences dell’Università di Edimburgo, è attivo un ente di beneficenza, il Daphne Jackson Trust, che sostiene le persone che tornano alla carriera di ricerca dopo una pausa. A questo servizio si è rivolta Rachel James, che dopo tre anni di stop è tornata per un post dottorato e ha affidato al settimanale scientifico britannico Nature il racconto di un percorso che riassume in sé questioni salienti come la difficoltà di conciliare la carriera universitaria con la famiglia, la precarietà, lo stigma del fallimento e l’importanza del prendersi cura di sé.
James ha avuto il primo dei suoi tre figli verso la fine del suo primo post dottorato, nel 2005. Dopo un anno di congedo di maternità ha portato a termine l’incarico per poi assicurarsi un secondo post dottorato, part time, in un altro laboratorio. Dopo altri 10 mesi di congedo di maternità per l’arrivo del suo secondo figlio nel 2008, James ha proseguito e pubblicato la sua ricerca. Ma con due bambini piccoli a casa e un compagno che lavorava fuori città durante la settimana, mantenere le attività extra necessarie per una carriera accademica – per esempio partecipare a seminari, conferenze ed eventi sociali; intraprendere attività di sviluppo professionale o di potenziamento delle competenze; collaborare con altri colleghi e sviluppare idee di ricerca – era diventato impossibile. Alla fine di quel secondo dottorato, nel 2010, la donna ha pensato che abbandonare quel percorso fosse la decisione migliore da prendere.
Dopo aver lasciato l’università, ha iniziato a lavorare per il gruppo di pubblicazioni scientifiche con sede in Giappone Edanz editing con orari ridotti, un reddito ragionevole e grande flessibilità. Nel 2012 è nato il suo terzo figlio e tre anni dopo ha accettato un lavoro di insegnante part time alla britannica Open University, un istituto di formazione a distanza con sede a Milton Keynes. Ma ora è di nuovo una ricercatrice e conduce il suo post dottorato con una borsa di studio di tre anni finanziata dal Daphne Jackson Trust.
Percorsi di carriera oltre la norma accademica
Nel raccontare il suo percorso, la donna ha spiegato come sia stata ispirata dalle scienziate Carol Robinson ed Helen Arthur che avevano già affrontato con successo interruzioni di carriera e che sono state incluse dalla pubblicazione del 2011 dell’organizzazione britannica Royal society Mothers in science: 64 ways to have it all. Avere questi riferimenti è stato un sollievo soprattutto perché, ha spiegato James, trovare persone che hanno trovato il modo per bilanciare lavoro e vita familiare in modi che non si adattano alla norma accademica non è per nulla facile. Anche perché, ha sottolineato la ricercatrice, lasciare il mondo della ricerca universitaria è considerato troppo spesso come una sorta di fallimento: è frequente che diventi un’etichetta di cui è difficile liberarsi.
Convinta di volere per sé un’occupazione che fosse una parte della sua vita e non qualcosa che sulla sua vita prendesse il sopravvento, James è andata avanti per la sua strada e avuto la capacità e la fortuna di sperimentarsi in lavori che le permettessero di sviluppare e dimostrare competenze apprezzate anche dall’ambito della ricerca. L’esperienza svolta le ha tra l’altro permesso di essere meno dipendente dal mercato del lavoro accademico, fortemente caratterizzato da contratti brevi a tempo determinato.
Allontanarsi da quell’ambito è stato utile anche per il tempo che la donna ha potuto dedicare alla lettura e all’approfondimento, senza alcuno scopo diverso dalla sua curiosità. Ha potuto pensare, osservare, sfidare, testare, leggere, scrivere in modo indipendente, coltivando idee e interessi che le necessità di sicurezza finanziaria in un mercato del lavoro precario portano a mettere da parte.
Anche se costituiscono ancora una piccola minoranza della comunità di ricerca, gli accademici che si sono allontanati per periodi di varia durata dalla carriera universitaria sono più di quelli che si potrebbe pensare. La stessa Carol Robinson, attuale Presidente della società scientifica britannica Royal society of chemistry, è stata la prima professoressa donna nei dipartimenti di Chimica delle Università di Cambridge e Oxford, con otto anni di pausa di carriera in curriculum.
Un ambiente di ricerca più inclusivo e diversificato aiuterebbe ad ampliare la definizione di che cosa significhi essere una ricercatrice, un passaggio che andrebbe a beneficio anche di chi, nell’affrontare la fine di un contratto o le inevitabili sfide della vita, potrebbe vedere la sua carriera vacillare o interrompersi. Faciliterebbe le persone in questa condizione nel realizzare che il percorso potrebbe ramificarsi o fermarsi e non necessariamente finire per sempre.
Fonte: Nature
Laureata in Filosofia, Erica Manniello è giornalista professionista dal 2016, dopo aver svolto il praticantato giornalistico presso la Scuola superiore di Giornalismo “Massimo Baldini” all’Università Luiss Guido Carli. Ha lavorato come Responsabile Comunicazione e come giornalista freelance collaborando con testate come Internazionale, Redattore Sociale, Rockol, Grazia e Rolling Stone Italia, alternando l’interesse per la musica a quello per il sociale. Le fanno battere il cuore i lunghi viaggi in macchina, i concerti sotto palco, i quartieri dimenticati e la pizza con il gorgonzola.
work life balance, diversity, maternità, dottorato, PhD