Coraggio, sono tempi difficili
Agire nonostante. Questa frase brevissima cattura in modo eccellente l’essenza del coraggio. Fare qualcosa nonostante ci siano dei rischi, reali o immaginari, di cui abbiamo paura. Nonostante dobbiamo affrontare degli ostacoli, che implicano fatica e possibilità di insuccesso. Nonostante non ci sia un premio in palio. Il coraggio, infatti, non riguarda ciò che si compie in vista di una ricompensa, ma ciò che si fa in armonia con se stessi, con i propri valori. Sono alcuni spunti presi dal libro Coraggio (Raffello Cortina Editore, 2012) di Diego Fusaro, pensatore poco condivisibile sull’attualità, ma spesso acuto sulle riflessioni filosofiche. Fusaro parla proprio di “agire spontaneo, appassionato e disinteressato”, “un agire malgrado”, “cominciando e continuando”, “facendo agire la propria soggettività contro situazioni che si pretendono immutabili”.
Qualche anno fa, insieme con una collega, abbiamo pensato di sperimentare una formazione nella quale affrontare questo tema nella sua declinazione lavorativa: quanto può essere importante il coraggio nella vita aziendale? La nostra preoccupazione era quella di non intervenire come predicatori di una nuova soft skill, come avviene spesso quando si parla di “essere protagonisti del cambiamento”, di “lasciare la propria zona di comfort” o altri luoghi comuni. Ma come persone che erano interessate a comprendere questo tema insieme.
L’approccio ‘doveristico’ è poco interessante, ma soprattutto inutile, perché non attecchisce, non favorisce uno sviluppo del pensiero e ancora meno dei comportamenti. Il coraggio è un tema spinoso, perché è legato in qualche modo all’autenticità e alla gratuità, ma anche perché è una virtù che ha una dimensione sociale. Non posso dire di essere coraggioso a casa mia, nella mia stanza, ma devo dimostrarlo con azioni che si qualificano come tali di fronte agli altri. Da questo punto di vista, il formatore rischia di essere percepito come un super-io persecutorio che pone un’ennesima richiesta ai partecipanti. Inoltre, eravamo consapevoli del fatto che la domanda “sono coraggioso?” può essere estremamente scomoda. Il contrario di “coraggioso” è “codardo, vigliacco”, nulla di positivo.
Imparare il coraggio
In una delle prime sessioni sperimentali, dopo un avvio promettente nella quale una partecipante aveva descritto una situazione in cui avrebbe potuto essere più coraggiosa, il clima cambiò repentinamente. Prese la parola un’altra partecipante che accusò l’azienda di non dare la possibilità di essere coraggiosi e l’aula la elesse a sua portavoce. Tutti si coalizzarono sulla posizione “noi saremmo coraggiosi se solo l’azienda ce ne desse la possibilità”. Ci vollero molta pazienza e calma per poter riprendere la riflessione in modo produttivo. Le ragioni di questa reazione così marcata possono essere state diverse: un atteggiamento troppo legato al ‘si deve essere coraggiosi’ da parte dei formatori, anche inconscio; un intervento in qualche modo critico troppo precoce da parte della prima partecipante, un clima aziendale percepito come troppo richiedente.
Abbiamo appreso che lo scopo del seminario è quello di lavorare su come essere più o abbastanza coraggiosi, formatori e aula insieme. Se si mettono tra parentesi tutta una serie di preconcetti che vedono il coraggio come qualcosa di legato solo a tempi eroici, la guerra, la resistenza – situazioni in qualche modo mitiche e irraggiungibili – ci possiamo rendere conto di come esso entri appieno nella nostra vita lavorativa quotidiana. Quante volte capita di dare risposte preconfezionate per paura (reale o immaginaria) di urtare capi, colleghi, clienti? Quante volte si rinuncia a mettere qualcosa di sé in un progetto, in un intervento, in una riunione o anche in una semplice mail (sempre per produrre un ‘compitino’ ineccepibile, a prova di critica, ma anche poco interessante)?
Per quanto mi riguarda, capita sovente. Sono gesti piccoli, nulla di clamoroso, che se non stigmatizzati come peccati, aprono di fatto alla possibilità di sviluppare il proprio coraggio. Aristotele sostiene una cosa molto confortante, e cioè che il coraggio si può imparare. Attraverso il fare: “Quando dobbiamo apprendere come fare qualcosa, è attraverso il fare che l’apprendiamo. Così è costruendo che si impara a costruire, e suonando la citara si diviene citaristi. Nello stesso modo, è così che esercitandoci a fare azioni giuste che diventiamo giusti, è agendo con moderazione che diventiamo moderati, o con coraggio, coraggiosi”, diceva il filosofo greco. Sebbene ci dia speranza, tuttavia, il fare va orientato cercando di individuare modalità di coraggio meno eroiche (e perciò irraggiungibili), meno marziali di quelle che possiamo avere in mente. Uscire da stereotipi che vedono il coraggio come qualcosa di eccezionale. Entrare in una sua dimensione quotidiana. E, in quest’ambito, individuare degli esempi appropriati meno scontati, fuori dagli schemi. Lontani da un’idea di ‘dover essere’, ma al contrario, coraggio come via per essere più se stessi e ricavarne piacere.
Il coraggio come agire nonostante la paura
Ci sono due riflessioni – che non ho scoperto subito – che poi mi hanno molto aiutato. Michela Marzano ha scritto il capitolo Coraggio di un bel testo dedicato alle quattro virtù cardinali. Questa filosofa, in modo sorprendente, collega il tema del coraggio alla compassione. Questo sentimento verso gli altri mi spinge ad azioni coraggiose. Inoltre, secondo l’autrice – ma anche secondo Aristotele – non è l’assenza della paura a rendermi coraggioso. È il mio agire nonostante la paura a rendermi tale. E la molla per superare la paura – sempre nel senso non di annullarla, ma di riuscire ad agire malgrado essa – è l’attenzione all’altro. Quindi non a princìpi astratti.
Esporsi per qualcuno, chiedere supporto per chi è oberato dal lavoro, prendere le difese di chi è in difficoltà in una riunione sono esempi di come vedere l’altro possa generare comportamenti coraggiosi. Anche dare un feedback duro, ma utile per migliorare, può essere considerato un atto di coraggio. Il tema del feedback è emerso tantissimo nei seminari dedicati a questo tema. Dare riscontri, infatti, è percepita come un’azione coraggiosa (sia per quelli positivi sia per quelli negativi). Le persone vedono comunque il feedback come un esporsi, con il pericolo del rifiuto dell’altro o di un’interpretazione errata, come un atto di benevolenza non richiesta nel caso del feedback positivo o di un attacco personale nel caso di quello negativo.
Ho trovato poi illuminante una citazione di Simone Weil, filosofa francese del XX secolo di origini ebraiche. Weil alla fine del 1942 raggiunse Londra per unirsi al movimento France Libre del Generale Charles De Gaulle, cui formulò una proposta paradossale: suggerì di creare un’unità di infermiere da schierare in prima linea, che curasse i soldati mentre infuriava la battaglia. E Weil sarebbe stata la prima volontaria. Ecco le sue parole: “Le SS esprimono alla perfezione lo spirito hitleriano […] l’eroismo della brutalità […]. Ma noi possiamo e dobbiamo dimostrare di possedere un altro tipo di coraggio. Il loro è brutale e ignobile perché proviene dalla volontà di potenza e di distruzione. Perché i nostri fini sono diversi, anche il nostro coraggio deve essere diverso. Ma niente potrebbe simboleggiare meglio il nostro spirito di questa unità femminile di pronto intervento. Il puro e semplice svolgimento di certi compiti, come testimonianza dell’umanità in mezzo alla battaglia, al culmine dell’inciviltà sarebbe una provocazione intollerabile per questa barbarie che il nemico ha fatto propria e nella quale vuole trascinare anche noi”.
Il commando-infermiere sarà liquidato da De Gaulle con l’affermazione: “È pazza!”. L’idea di Weil suggerisce diversi spunti. Intanto che, oltre al coraggio dell’azione, esiste un coraggio del pensiero. Ideare e avanzare questa proposta richiede un grande audacia nella riflessione. E identifica un coraggio completamente diverso da quello che contraddistingueva la propaganda di tutte le nazioni in guerra. Invece che cercare il valore nell’azione contro il nemico, Weil lo cerca nella cura, nell’attenzione ai feriti e nel loro immediato soccorso. E per la pensatrice questo è necessario per vincere veramente: soprattutto sul piano dei valori e dell’umanità.
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