Curare la community come leva di brand awareness
Brand awareness e recensioni: a legarle è un filo strettissimo. A dimostrarlo sono diversi accadimenti divenuti poi notizia virale sul web. Perché se è vero che – almeno per la maggior parte degli utenti – scripta (sui social) volant, in realtà le parole negative lasciate a commento possono rovinare la reputazione di un’azienda in maniera davvero pesante.
L’ultima news in fatto di tempo è quella che ha coinvolto un locale milanese, che ha gestito una valanga di recensioni negative nella maniera migliore possibile, diventando un esempio per altri. Almeno questa è l’opinione di Matteo Lanfranchi, CEO di Reverb, azienda di consulenza che applica l’approccio teatrale ed estetico alla comunicazione aziendale, occupandosi anche di brand awareness, ovvero di consapevolezza d’immagine, soprattutto per il mondo dell’arte, della cultura e della sensibilizzazione medica (come nel caso delle campagne “Voci sott’acqua” per la fibrosi polmonare idroponica e quella a favore dell’informazione sulle encefalopatie genetiche complesse).
L’esperienza comunicativa di Reverb, in questo caso, è d’esempio: basandosi sulla bellezza, la comunicazione diventa messaggera di un contenuto che va al di là del meramente bello, in un’epoca che fa dell’aspetto esteriore e d’impatto la colonna portante del contenuto. “Oggi utilizzare linguaggi diversi per coinvolgere le persone fa la differenza, proprio come ‘spiegare’ o ‘raccontare’. E il racconto, nell’epoca dei social, è essenziale per la brand awareness”.
Negare la visibilità agli haters
Il locale di Milano coinvolto nella vicenda è noto per i nove gatti che girano tra i tavoli. Di recente, la titolare ha denunciato sui social il fatto: “Uno streamer, di cui non faremo il nome per non alimentare la visibilità, è venuto nel nostro locale, in diretta Twitch”. Il personaggio, per la verità, è noto proprio per entrare nei locali, molestare proprietari e clienti e, incitato dagli utenti sulla chat della piattaforma di livestreaming, farsi cacciare. “Come da copione il suo comportamento sopra le righe ha infastidito diversi clienti, esausti dalle iniziative dei suoi sostenitori, che hanno iniziato incessantemente a telefonare al locale, con scherzi, battute oscene e altro. A quel punto abbiamo chiesto allo streamer di uscire e cortesemente di non tornare”, ha spiegato la proprietaria del locale. Da lì, la valanga di recensioni online negative, una vendetta che, potenzialmente, avrebbe potuto avere effetti devastanti.
“Ora più che mai, nell’epoca dei social, la brand awareness è fondamentale”, sottolinea a questo proposito Lanfranchi. “Di episodi come questo purtroppo ce ne sono stati diversi, ed è una mossa dalla quale è molto difficile difendersi. Ti massacrano. Vince chi è più grosso, ovvero chi ha la community online più forte, viva e attiva. Il principale strumento di reazione? Fare appello alla propria community”. Che è proprio ciò che ha fatto il locale in questione, chiedendo con umiltà recensioni sincere ai propri clienti.
Il ritorno, in questo caso, è stato fortunatamente positivo, grazie anche alla viralità delle stories su Instagram, riprese da moltissimi utenti. Ciò che è stato azzeccato è stato l’approccio su due fronti, secondo Lanfranchi: “Per prima cosa ha cercato l’aiuto della community; in secondo luogo, ha fatto bene a non nominare l’influencer responsabile dell’attacco, evitando moltiplicarne la visibilità. Perché lui cercava proprio questo e pubblicità gratis”.
La community può essere quindi un’arma a doppio taglio, tanto che Lanfranchi la definisce come uno dei lati oscuri dei social, dal momento che gli haters – gli ‘odiatori seriali’ – si nascondono sempre dietro a uno pseudonimo e soprattutto perché approfittano del fatto che chi è attaccato è privo di protezione: c’è infatti un vuoto legislativo, al contrario di quanto avviene nella vita offline e sulla carta stampata. Il problema è che si tratta a tutti gli effetti di bullismo. E nel caso delle aziende ha conseguenze non solo sociali e personali, ma anche economiche. “Un gesto di questo tipo è l’equivalente digitale dell’entrare in un locale e distruggerlo a mazzate”, taglia corto Lanfranchi.
Avere figure che gestiscano il ritorno sui social
Il mondo delle recensioni negative, insomma, è una questione scottante. “Nonostante questo, noto che sono poche le aziende che si preoccupano della propria percezione”, ammette il CEO di Reverb. “Ciò che porta le imprese a sbagliare comunicazione sono più fattori. Non sapere cosa stanno facendo i competitor, ma anche conoscere solo superficialmente gli strumenti da usare, che vanno scelti in base al proprio target: per esempio è inutile puntare su Instagram per un pubblico di Over 65. Infine, non essere allineati sui temi più caldi del momento. Oppure, al contrario, esserlo solo per cavalcare l’onda, compiendo lo sbaglio che fa la politica di questi tempi”. L’occhio del consumatore, infatti, è attentissimo.
Altro errore delle aziende è, riallacciandosi al discorso precedente, l’incapacità di gestire la community. “Molti nostri clienti sono preoccupati proprio dai commenti online; per esempio chi lavora nel Pharma o nel Servizio sanitario nazionale. Si chiedono: cosa dirà la gente? Schierarsi e postare può essere fatto solo quando si possiedono le risorse e le competenze per gestire ciò che seguirà, perché, negativamente o positivamente, qualcosa seguirà. Pensiamola un po’ come una customer experience, che oggigiorno fa la differenza: spesso i clienti scelgono il fornitore più disponibile al dialogo, quello che risolve le cose in fretta e risponde”.
Per costruire un’immagine online positiva, quindi, le aziende devono affidarsi a una figura dedicata, che non è più solo un costo, ma un’opportunità, e, secondo Lanfranchi, puntare sulla consapevolezza di ciò che accade. Aggiornarsi, quindi, e guardarsi intorno. “Ma anche differenziarsi, andando a scegliere con cura il target a cui si punta, ponendo attenzione agli aspetti estetici e agganciando visivamente il pubblico. La comunicazione è fatta di tanti elementi, e vanno considerati tutti, anche quelli che possono sembrare marginali. Bisogna poi arrendersi al fatto che il contenuto, in termini di percezione, pesa molto meno del modo in cui un prodotto o un’idea vengono presentati”.
Sara Polotti è giornalista pubblicista dal 2016, ma scrive dal 2010, quando durante gli anni dell’Università Cattolica del Sacro Cuore (facoltà di Lettere e Filosofia) recensiva mostre ed eventi artistici per piccole testate online. Negli anni si è dedicata alla critica teatrale e fotografica, arrivando poi a occuparsi di contenuti differenti per riviste online e cartacee. Legge moltissimo, ama le serie tivù ed è fervente sostenitrice dei diritti civili, dell’uguaglianza e della rappresentazione inclusiva, oltre che dell’ecosostenibilità.
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