Da recruiter a cacciatori di storie: la nuova selezione del personale

Non basta snocciolare le competenze né citare una dietro l’altra le esperienze lavorative. Cercare lavoro, oggi, spesso significa rimettersi al giudizio degli algoritmi che analizzano il percorso professionale; ma l’intelligenza umana resta, a conti fatti, lo strumento principe dell’head hunting. Perché sono parecchie le cose che restano fuori dal curriculum.

Su tutte le numerose soft skill – competenze di vita, pregi personali e capacità di relazione, adattabilità e organizzazione – che non possono rientrare nella narrazione standard del cv. E anche quando rientrano, si ritrovano imbrigliate in rapide definizioni. Qui entrano in gioco le competenze di chi si occupa di ricerca del personale, con la sua capacità di leggere tra le righe e di porre le domande giuste durante i colloqui per andare oltre alle poche righe di presentazione dei candidati.

Quali siano le soft skill più cercate l’ha rivelato recentemente una survey di Manpower dal titolo Soft skills for talent: il 71% delle aziende coinvolte dichiara di cercare nei potenziali dipendenti la capacità di risoluzione dei problemi. A essa seguono l’attitudine alla comunicazione e l’orientamento agli obiettivi. Queste stesse soft skill sono ritenute fondamentali anche dai relatori di Cacciatori di storie – Nuovi scenari per l’head hunting: l’intelligenza umana e l’algoritmo alla ricerca del profilo giusto, evento promosso dalla casa editrice ESTE e dalla sua rivista Persone&Conoscenze – il magazine dedicato alla Direzione del Personale – e di cui Parole di Management è stato Media Partner.

Le soft skill non sono importanti solo per le aziende private, ma ormai anche per le Pubbliche amministrazioni, che come specifica Sonia Furlan, Responsabile delle risorse umane del Comune di Padova, devono oggi trovare un modo obiettivo e imparziale per valutare le competenze umane (su tutte problem solving, pianificazione e leadership, oltre a intelligenza sociale ed emotiva) e conciliando la selezione con l’anonimato dei concorsi.

Storytelling e recruiter specializzati per andare oltre il cv

Tutto questo si inserisce in una visione del mondo del lavoro che deve per forza fare i conti con il futuro. Come fa notare Alessandro Testa, Direttore di Jefferson Wells (brand di ManPower, società specializzata nella selezione di profili Middle ed Executive management per Finance, HR e Legal, Banking e Insurance, Life Sciences, Engineering e Sales e Marketing), circa un terzo delle professioni che conosciamo oggi vivranno una situazione di domanda crescente nei prossimi 10 anni.

Lo scenario ha quindi un livello di dinamismo elevatissimo, dinamismo che rende le soft skill importanti quanto le hard skill. “Oggi le competenze tecniche diventano obsolete in tempi velocissimi e quindi le persone che inseriamo con una certa job description potrebbero avere una posizione diversa domani”, ha spiegato Testa, lasciando intendere l’importanza della flessibilità e dell’adattabilità.

Lo storytelling, dunque, deve diventare una capacità del candidato, ma di fronte a esso il selezionatore deve mettere in campo un’indagine accurata e ampia, non standardizzata, che sappia approfondire nella maniera corretta la persona e la sua storia. I Direttori del Personale devono essere in altre parole dei cacciatori di storie, e non solo di teste.

Va in questo senso il caso di De’ Longhi. Nel 2000, come ha raccontato il Direttore Risorse Umane e Organizzazione Roberto Ceschin, i dipendenti erano 4mila, più che raddoppiati in circa 20 anni (ora sono 10mila). “Il processo di selezione era tradizionale, con persone interne che lo facevano quasi nei ritagli di tempo. Oggi abbiamo persone specializzate che si dedicano al recruiting di nuovi talenti e ci hanno fatto fare un salto di qualità. Ma siamo anche di fronte a una nuova generazione di talenti e, al di là della valutazione delle competenze tecniche, è necessario che ci sia compatibilità con i modi di vivere l’azienda, il lavoro e il business”. Ecco perché più che di recruiter, servono professionisti specializzati nella ricerca di storie e nell’analisi dei ‘racconti’.

La narrazione è importante anche per le aziende

Ma non sono solo i candidati a dovere narrare la propria storia in maniera originale, attraente e sincera. Sempre più spesso è l’azienda a dover comunicare in modo chiaro e accattivante il proprio purpose, il proprio essere, il proprio modo di lavorare e di considerare le risorse umane.

In particolare questo vale quando le competenze tecniche ricercate sono molto specifiche (con potenziali dipendenti che si trovano a valutare diverse offerte di lavoro), quando l’azienda è piccola e di conseguenza poco attrattiva per le risorse umane (come capitò a cavallo del 2000 a Berto Salotti, che puntò quindi sul fattore umano dell’HR, sui propri valori di fondo e sulla spettacolarizzazione e valorizzazione del lavoro artigiano) o quando, nel caso di aziende straniere in Italia, c’è da comunicare una diversa cultura del lavoro (come ha raccontato Anna Maria Testa per conto di ZTE Italia, di cui è Corporate Culture and Talent Management).

Lo conferma anche un’indagine di LinkedIn: secondo il 72% dei selezionatori, l’Employer branding – ovvero la reputazione dell’azienda in quanto datore e luogo di lavoro – ha un impatto fortissimo sull’assunzione, con i potenziali dipendenti che cercano le informazioni sull’azienda affidandosi al sito web ufficiale, ai network professionali online e ai social media. Necessario, dunque, è anche comunicare ai candidati ciò che l’azienda può offrire, entrando al tempo stesso in empatia con loro e mettendo in campo lo human touch.

Esattamente come fa Esselunga, per esempio, che nella propria squadra di head hunting conta anche degli specialisti della comunicazione, perché “siamo attenti all’inserimento di ogni singola persona”, come ha chiarito Daniele Del Gobbo, Talent Acquisition ed Employer Branding Manager, sottolineando quindi lo stretto legame tra le attività di promozione dell’immagine dell’azienda e l’umanità che deve sempre stare alla base della selezione del personale. “Noi selezioniamo molti giovani, di solito tra i 18 e i 25 anni, che non hanno esperienze lavorative, ma solo passione e voglia di imparare. A qualsiasi livello vogliamo quindi insegnare un mestiere. La nostra azienda nasce come una bottega di quartiere e questo vogliamo mantenerlo a tutti i livelli, anche nell’IT, ma pure nel Digital Marketing, fino alla macelleria”.

Da qui la scelta di valutare i candidati in modo diverso da una normale selezione: “Ciò che guardiamo nelle persone, quindi, non è solo la parte tecnica (che è facilmente mappabile, per esempio con una challenge), ma soprattutto ciò che c’è nel curriculum e come sanno raccontare ciò che sono e ciò che vogliono. Che tipo di conoscenza hanno dell’azienda? Che voglia hanno di imparare il mestiere per cui si candidano?”.

selezione del personale, recruiting, head hunting


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Sara Polotti

Sara Polotti è giornalista pubblicista dal 2016, ma scrive dal 2010, quando durante gli anni dell’Università Cattolica del Sacro Cuore (facoltà di Lettere e Filosofia) recensiva mostre ed eventi artistici per piccole testate online. Negli anni si è dedicata alla critica teatrale e fotografica, arrivando poi a occuparsi di contenuti differenti per riviste online e cartacee. Legge moltissimo, ama le serie tivù ed è fervente sostenitrice dei diritti civili, dell’uguaglianza e della rappresentazione inclusiva, oltre che dell’ecosostenibilità.

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