Flessibilità oraria

Dal cartellino alla flessibilità: un nuovo modello per gli orari di lavoro

In questo periodo di emergenza che ha imposto l’adozione di nuovi modelli di lavoro da remoto, la flessibilità e la personalizzazione degli orari di lavoro sono improvvisamente tornati in cima alle esigenze di aziende e dipendenti. Più che di radicali cambiamenti degli orari per tutti i lavoratori, il nuovo scenario si presta alla personalizzazione del tempo dedicato all’impiego e agli altri impegni di vita.

Adattare gli orari ai dipendenti è, però, difficile soprattutto per coordinarne l’operato, ma di contro si prospettano maggiore produttività e qualità della vita. Di flessibilità e orari di lavoro, analizzandone l’evoluzione rispetto al contesto storico-sociale, ne ha scritto Luciano Pero sulla rivista Sviluppo&Organizzazione, arrivando a proporre il modello di orari a menù: l’articolo è liberamente tratto dal paper scientifico.

Flessibilità come inizio della de-standardizzazione

Gli ultimi 20 anni possono essere interpretati come una epoca di flessibilizzazione degli orari di lavoro in cui le esigenze sindacali di difesa dell’occupazione per contrastare l’automazione e la disoccupazione tecnologica si sono accordate con le esigenze imprenditoriali di flessibilità del sistema produttivo.

Numerosi studi hanno messo in evidenza come la flessibilizzazione dei sistemi produttivi in molti casi si accompagni all’adozione di interventi specifici sugli orari di lavoro che portano a variazioni strutturali e stabili dei sistemi di orario aziendali. Tali variazioni spesso avvengono all’interno delle regolazioni contrattuali nazionali (o di legge) come applicazione di clausole predefinite; ma forse ancora più spesso avvengono come innovazioni su base aziendale quando non in deroga a regole nazionali o di legge (si pensi solo al lavoro notturno per le donne).

In un certo senso le due tendenze ricordate sopra – riduzioni dell’orario contrattuale e flessibilizzazione degli orari aziendali, che spesso contrappongono fortemente gli attori sociali al momento dei rinnovi contrattuali – si sono incontrate e hanno trovato una conciliazione o combinazione che le ha reciprocamente alimentate. Molto frequentemente la conciliazione tra flessibilità e riduzione è stata alla base dei compromessi contrattuali segnati nei due decenni.

Nel caso italiano (ma lo stesso si può dire anche di Francia e Germania) alcune clausole contrattuali risultate da questo compromesso non solo hanno aperto le porte ad accordi aziendali di flessibilità produttiva basati su orari più flessibili (si pensi alle clausole di modularità, di annualizzazione, di sperimentazione di nuove turnazioni, ecc.), ma hanno anche reso più flessibile l’intero sistema produttivo.

Il risultato globale è stata una differenziazione elevatissima delle forme di orario praticate di fatto: certo gli archetipi e gli schemi base restano simili agli orari fordisti (giornata, due turni, tre turni, ciclo continuo, part time), ma le modalità applicative sono tantissime e diverse e inoltre la fascia degli orari e dei turni ‘anomali’ e ‘sperimentali’ è in continua crescita. Siamo nella situazione in cui l’eccezione sta diventando la regola.

Flessibilità aziendale Vs. esigenza di personalizzazione dell’orario

In sintesi, il risultato di un ventennio di evoluzione delle regole contrattuali basate sullo scambio  flessibilità-riduzione-occupazione ha prodotto una situazione in cui gli orari di fatto possono essere descritti come costituiti da un nucleo di base, in cui sono riconoscibili ancora le principali forme di orario del modello fordista e da aloni o contorni variabili in cui si concentrano ‘i pezzi non-standard’ dell’orario. Tali aloni sono più ristretti per la massa dei lavoratori dei settori più tradizionali, o che operano su mercati chiusi, e sono invece dominanti per i lavoratori dei settori innovativi o che operano su mercati aperti.

Il cambiamento degli orari negli ultimi decenni è stato assai rapido se si tiene conto della lentezza con cui nella storia sono cambiati i calendari e le altre abitudini temporali. Certamente si può dire che lo sviluppo del cambiamento di orario non sarebbe stato così rapido se non avesse incontrato un’altra grande tendenza alla destandardizzazione: quella dei costumi, degli stili di vita, delle forme di socializzazione nelle varie età della vita. 

È probabilmente la sinergia tra destandardizzazione degli stili di vita ed esigenze di flessibilità aziendale che ha prodotto la rapida trasformazione del sistema degli orari che abbiamo di fronte. Se questa ipotesi fosse vera bisognerebbe ammettere che, accanto alle esigenze di flessibilità aziendale, ha agito un altro potente fattore di trasformazione dell’intera società ed esterno all’impresa: il mutamento degli stili e delle aspettative di vita e la loro accentuata individualizzazione.

Tutte le ricerche sulle opinioni delle persone e dei lavoratori verso gli orari mettono, infatti, in evidenza una crescente esigenza di personalizzazione del tempo di lavoro e in generale del tempo di vita. Esso solo in parte si è incontrata con la parallela esigenza di flessibilità dell’impresa. La grande maggioranza delle indagini evidenziano piuttosto una ‘diffidenza’ dei lavoratori verso le strategie di flessibilità aziendale, che essi percepiscono piuttosto come rigidità per se stessi, in quanto le variazioni di orario sono quelle decise e attese dall’azienda e sono in genere a senso unico. Ma l’impatto tra personalizzazione e flessibilità è ancora più elevato se si considerano le forme di lavoro cosiddetto atipico o più in generale indipendente.

C’è in breve una crescente tensione tra la ‘flessibilità rigida’ che molte imprese sembrano richiedere oggi e la variazione personalizzata a cui molte persone sembrano aspirare. Questa tensione tende a scaricarsi non tanto dentro le imprese e nelle relazioni sindacali, quanto piuttosto sul mercato del lavoro e nelle strategie individuali di cambiamento di lavoro. Molte ricerche dimostrano come tra i fattori che spingono le persone a cambiare lavoro, quello della ricerca di un nuovo orario sia molto in crescita. Esse si manifestano perciò più nella difficoltà di incontro tra domanda e offerta, o nella scarsità di certe professioni, piuttosto che in tensioni interne alle aziende e nelle relazioni sindacali.

Gli orari a ‘menù’ come nuovo paradigma di regolazione

In sostanza la mia ipotesi è che l’era della flessibilità possa essere considerata una specie di era intermedia che ha messo in crisi il modello standard attraverso un modello ‘misto’, ma che lentamente sarà sostituita a sua volta da un altro paradigma.

La Banca delle ore, introdotta recentemente in alcuni contratti nazionali in Italia, e in uso da più anni in Germania, può essere considerata come un primo passo della nuova fase. Lo scarso utilizzo del nuovo istituto nel primissimo periodo non deve essere considerato un insuccesso sia per le difficoltà tecniche dell’applicazione, sia perché in generale tutti i cambiamenti temporali richiedono molto tempo per affermarsi.

In sintesi, i fattori favorevoli a un cambio di paradigma nella regolazione del tempo di lavoro sono: la diffusione della net-economy che riduce i vincoli di compresenza spazio-temporali e rende possibili più ampie personalizzazioni; la diffusione delle organizzazioni ‘snelle’, del team-work e di forme di coordinamento informale e diretto, che aumentano la responsabilità sul risultato riducono il controllo sulla presenza; la complicatezza, già oggi elevata, a regolare tempo e denaro per mezzo di un sistema complicato di standard di ore e di salario che prevedono tantissime eccezioni e situazioni in cui le deroghe alla norma standard sono molto numerose; la definizione di leggi e regole transnazionali basate sempre più su tetti annui e regole astratte e generali, con l’esigenza di comprendere insieme lavoratori dipendenti e indipendenti; la crescita dei lavoratori indipendenti e dei lavoratori della conoscenza, che sono in genere molto orientati ad una gestione autonoma della qualità del tempo e richiedono forme innovative.

L’idea di regolare gli orari attraverso menù di scelta con una doppia faccia, verso i lavoratori e verso l’azienda (così come il menù vale per la cucina e per i commensali) è un’idea del genere ‘futuribile’ dal momento che, come ho già detto, le norme di regolazione del tempo si evolvono molto lentamente e l’umanità, su questo tema, è molto conservatrice. Tuttavia, questa idea potrebbe fornire suggestioni utili alla progettazione del futuro.

Essa nasce come un rovesciamento di paradigma: invece di continuare a ragionare con gli standard e continuare a inventare ‘eccezioni’ e modifiche sempre più complicate per trovare la soluzione a esigenze nuove, potrebbe essere più semplice trovare una soluzione diretta del problema. E poiché il problema è che gli attori, impresa e lavoratori, hanno ‘gusti’ e necessità di ‘dieta’ diversi, allora il sistema dei menù può essere un buon punto di incontro. 

Gli obiettivi del paradigma dei menù sono di consentire allo stesso tempo: una definizione di forme di orario diverse pensate appositamente per figure o ruoli sociali socialmente riconosciute, nei quali possono identificarsi un numero elevato di persone; quali per esempio il giovane studente universitario, la persona con bambini piccoli da accudire, la persona con carichi di famiglia, il lavoratore ‘salarialista’ che vuole lavorare il più possibile, l’anziano che vuole lavorare con orari più amichevoli, ecc.; una definizione degli orari di lavoro di una azienda come mix di orari delle figure sociali in modo che si possano soddisfare le esigenze di competitività dell’impresa; una conciliazione tra vita e lavoro basata per il lavoratore sulla possibilità regolata di cambiare nel corso della vita il tipo di orario e per l’impresa di variare il mix in funzione delle strategie.

Il menù alla francese come metafora del nuovo paradigma

Le idee base del paradigma a menù sono così riassumibili. Primo, il criterio guida di definizione dell’orario non è lo standard industriale, ma è la forma di orario più adattabile alle figure sociale di riferimento con le sue disponibilità o fabbisogni temporali. Secondo, disponibilità e fabbisogni temporali della figura sociale sono tradotti in un orario di lavoro tipico tenendo conto delle due dimensioni: quantità (entro i tetti di legge) – ore medie giorno-settimana; ferie e ore annue – e qualità – distribuzione quante ore nelle fasce orarie del giorno e della settimana; variabilità se l’orario è fisso oppure varia, con quale frequenza e come-perché; produttività nel senso che le soluzioni devono favorire la produttività del ruolo specifico (è implicito che ogni ruolo ha una dimensione tipica temporale della produttività). 

Terzo il modello produttivo temporale dell’impresa è espresso come mix di persone con varie tipologie di orario o come mix di qualità-quantità di tempo da lavorare ed è riconducibile a strategie temporali tipiche dell’impresa. Quarto la contrattazione collettiva non si esercita più su standard ed eccezioni (o varianti), ma: a livello generale (e internazionale) si definiscono i tetti massimi, i criteri e le politiche generali; a livello nazionale e di settore si negoziano gli orari tipici delle figure sociali, nonché i modelli produttivi principali utilizzabili e le regole di passaggio; a livello aziendale si negoziano i mix specifici di impresa e le applicazioni. Quinto un insieme di regole di entrata e di uscita definite nei contratti nazionali, stabilisce le possibilità di scelta e di recesso da parte delle singole persone e i diritti-doveri delle aziende nella gestione delle risorse.

I menù al ristorante variano da un modello ‘imposto’ uguale per tutti, a modelli con vari gradi di libertà. In particolare i gradi di libertà: sono più bassi nel sistema self service, perché si può scegliere tra un numero ristretto di opzioni già cucinate e sino a esaurimento; crescono nel sistema ‘alla francese’ in cui il commensale opta per un tipo di menù che descrive l’intero pranzo (con eventuali opzioni interne al menù); sono massime nel sistema à la carte all’italiana, in cui il commensale può richiedere tutte le combinazioni possibili, ma in cui il cuoco ha la maggior mole di problemi di cucina, per combinare disponibilità di materie prime e tempo di attesa del cliente.

La metafora è evidente. Il modello di orario standard industriale è come il menù dell’asilo nido: “mangiare o non mangiare”. I modelli di orario flessibile in via di sviluppo assomigliano alle mense aziendali: permessi, banca ore, recuperi, telelavoro e lavoro indipendente consentono di scegliere qualcosa ma entro limiti ristretti. 

Il menù alla francese rappresenterebbe un salto di paradigma straordinario, rappresentando una scelta effettiva per il commensale (mix qualità-prezzo) senza creare problemi alla cucina (cioè all’azienda), anzi facilitando la sua pianificazione; il menù all’italiana potrebbe essere considerato come l’utopia del tempo liberato nella società ideale del XXII secolo.

L’articolo integrale è pubblicato sul numero 192 di Sviluppo&Organizzazione.
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orario flessibile, gestione del tempo, flessibilità sul lavoro

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