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Dalla Francia all’Italia, perché è complicato riformare le pensioni

Il tema pensioni caratterizza sempre più il dibattito politico europeo e internazionale, sia per l’accentuato fenomeno demografico di senilizzazione sia per gli elevati debiti pubblici. Il tutto non dimenticando che le riforme dei sistemi previdenziali ‘muovono’ il consenso elettorale.

In Italia, per esempio, è appena ripartito il confronto tra Governo e sindacati su: modalità del superamento di quota 100 al termine della sperimentazione introducendo in maniera strutturale un nuovo canale di flessibilità in uscita che si affianchi alle canoniche pensione di vecchiaia e pensione anticipata; introduzione di una pensione contributiva di garanzia per i giovani; rapporto tra gravosità della occupazione ed età pensionabile; rilancio della previdenza complementare.

Intanto, a pochi chilometri da noi, il tema pensione ha scatenato lunghe proteste. In Francia è in corso una mobilitazione proprio contro la riforma voluta dal Presidente Emmanuel Macron e presentata di recente dal Consiglio dei Ministri. Il cronoprogramma prevede che a breve inizi a lavorare una commissione all’Assemblea nazionale, seguita da una conferenza alla presenza dei sindacati, per poi arrivare in Parlamento per il dibattito. L’eventuale approvazione definitiva dovrebbe avvenire entro giugno senza sottovalutare, però, che la riforma resterà cruciale per le elezioni municipali di metà marzo.

Mentre in Italia, al di là di dichiarazioni di richiamo elettorale, si discute di ‘correttivi’ a un sistema già disegnato dalla riforma Dini del 1995 e dalla riforma Fornero (l’Italia è, con la Svezia, il primo Paese europeo che ha introdotto il metodo di calcolo contributivo), la Francia si accinge invece a una rivisitazione profonda della propria architettura pensionistica.

Il sistema previdenziale a ripartizione di Parigi

Parigi ha un sistema previdenziale finanziariamente a ripartizione (pay as you go system) come peraltro quello italiano e quello dei principali Paesi occidentali, in cui cioè i contributi versati dai lavoratori in attività ‘pagano’ le pensioni a chi si è ritirato dal lavoro. Sconta allora, nonostante un tasso di natalità tra i più elevati d’Europa anche se in calo negli ultimi anni, un’evoluzione demografica poco favorevole.

Se nel 1990 la Francia contava quattro persone fra i 20 e i 64 anni per ogni Over 65, nel 2018 questo rapporto era già sceso da 4 a 2,9. Una parte più esigua di attivi deve finanziare un numero crescente di pensionati, attraverso un sistema che nel 2019 mostrava già un deficit di 2,9 miliardi di euro e un rapporto tra spesa pensioni e Pil del 14% (non va poi dimenticato che la Francia ha un rapporto debito pubblico/Pil poco al di sotto del 100%).

Attualmente, dunque, il sistema previdenziale francese si struttura in primo luogo su una pensione di base, pagata da una delle tre casse principali che sono il regime generale dei dipendenti del settore privato (80% dei pensionati), la Mutua sociale agricola (Msa) per i lavoratori agricoli e il regime delle professioni indipendenti. Vi sono anche 11 regimi speciali che riguardano i pubblici dipendenti, le aziende e stabilimenti pubblici e le professioni autonome (avvocati) oltre al fondo di solidarietà per gli anziani.

Andando al quantum per il calcolo della pensione vengono incrociati diversi fattori. Tra questi c’è la durata di attività, calcolata trimestralmente, il livello di reddito percepito durante i 25 anni migliori della vita lavorativa o dei sei ultimi mesi prima di andare in pensione per pubblici dipendenti e regimi speciali. Chi ha avuto tre figli ha diritto a una maggiorazione dell’importo mensile del 10%, pagata a ciascuno dei due genitori.

Se durante l’intera carriera una persona ha versato contributi a diversi regimi base e complementari, una volta in pensione percepisce più trattamenti. In Francia un pensionato in media percepisce 2,5 trattamenti pensionistici che si cumulano tra di loro.

Andando all’età pensionabile, la media di quella di vecchiaia è di 62 anni per tutti i lavoratori, ma per via di vecchi accordi sindacali e un sistema molto complicato, le cose variano molto tra le diverse categorie di lavoratori e tra settore pubblico e privato (si va dai macchinisti delle ferrovie statali che si ritirano a 50 anni, ai dipendenti delle società pubbliche che forniscono gas ed elettricità a 57 anni, per i lavori gravosi a 60 anni).

Oltre alla partecipazione al sistema di base, i lavoratori dipendenti hanno l’obbligo di versare contributi a casse dette complementari, ciascuna delle quali ha un proprio funzionamento specifico, che erogheranno una pensione complementare. Generalmente sono basate su sistemi a punteggi, convertiti in euro, il cui importo si somma a quello delle pensioni di base.

Sistema universale con incentivi a lavorare

Questo sistema, si diceva, è messo in discussione dalla riforma di Macron. Ma quali sono le modifiche più rilevanti? La riforma prevede l’attivazione di un sistema universale, uguale per tutti, che superi i regimi specifici, con platea di riferimento i lavoratori nati dopo il 1975, e che superi la diversificazione delle casse pensionistiche.

Si passerebbe poi a un metodo di calcolo simil contributivo con un sistema a punti in cui ogni euro guadagnato lavorando verrà associato a un certo numero di punti riconvertiti in denaro al momento di andare in pensione. È previsto un bonus per le mamme già dal primo figlio (adesso in Francia è previsto dal terzo figlio).

Per quel che riguarda l’età pensionabile si creerebbe poi un’età di ‘equilibrio’ dal 2027 a 64 anni, sotto la quale ci sarà un meccanismo di bonus-malus, una penalizzazione del 5% per ogni anno di pensione anticipata, mentre al contrario ci sarà un 5% in più per chi decide di restare a lavoro.

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Lorenzo Giuli

Lorenzo Giuli è lo pseudonimo di un esperto di previdenza complementare

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