Democrazia o democratura?

È un quesito interessante quello sulla tipologia di forma che lo Stato dovrebbe avere nell’era digitale. Perché è proprio nell’attuale contesto digitale che c’è anche il nostro futuro. Ecco quindi che alla nota parola “democrazia” si affianca “democratura”, che la Treccani traduce come un “regime politico improntato alle regole formali della democrazia, ma ispirato nei comportamenti a un autoritarismo sostanziale”.

Per capirci qualcosa serve partire da uno spunto del quarto incontro del ciclo Per una critica della politica digitale ospitato da Casa della cultura e curato da Francesco Varanini, cui hanno partecipato l’ecologista e già Senatore Fiorello Cortiana, la Direttrice di Ricerca presso l’Istituto di Scienza e Tecnologie dell’Informazione-Cnr di Pisa Fosca Giannotti e il giurista Luca Barbieri. Un incontro, quello promosso dal Direttore Responsabile di Persone&Conoscenze che ha indagato se e come la crescente potenza e diffusione degli strumenti digitali stia mettendo in discussione le fondamenta della democrazia, fino a trasformarla appunto in una democratura.

Così ha concluso il suo intervento, Varanini: “In Cina si parla di trionfo della tecnocrazia: cittadini ridotti a utenti, un’élite che si tiene unita e al comando grazie a un uso attento e pervasivo degli strumenti digitali e che conferma la distanza già ampia e sempre crescente tra aristocrazia e cittadini. In Italia, intanto, si celebra l’affidamento del Paese a un leader esperto e competente, esterno alla politica, che rassicuri e governi in questo periodo emergenziale. Al di là delle considerazioni sulla persona e sul momento storico, tutto questo non sarebbe in contrasto con l’amore proclamato per la nostra Costituzione?”.

Il rischio di trasformarsi da cittadini a (semplici) follower

Riprendendo le tesi del suo libro Le cinque leggi bronzee dell’era digitale, Varanini ha indicato le criticità che i Paesi democratici devono prendere in considerazione durante l’era digitale. Innanzitutto si è entrati in una società dello spettacolo elevata alla massima potenza. Dentro i luoghi istituzionali si assiste a pochi momenti di discussione aperta, mentre si sono moltiplicati i talk show dove la priorità è mettersi in mostra con il pubblico piuttosto che convincere l’interlocutore.

In questo contesto si assiste a una doppia privatizzazione: dei luoghi di dibattito e dei beni pubblici digitali. Ormai, è la tesi di Varanini, i rappresentanti dei cittadini devono per forza presidiare i social network, dove le regole del dibattito sono decise in totale autonomia da organizzazioni private a cui ci si deve adeguare pena l’espulsione senza ricorso (noto è il recente caso della censura all’ex Presidente Usa, Donald Trump, quando era ancora alla Casa Bianca). Quelle stesse aziende vedono privatizzata a loro favore una grande mole di dati pubblici: per esempio uno dei primi provvedimenti dell’allora Presidente americano Barack Obama quando venne eletto fu di nominare un Chief Information Officer – ruolo che viene dal mondo del business – per mettere a disposizione di studiosi, ma soprattutto dei big del digitale, i dati in possesso del Governo.

Così mentre le grandi imprese digitali rafforzano il proprio potere sulla democrazia, i cittadini degradano al ruolo di semplici follower. Attraverso smartphone, Personal computer e social network si procede a una massificazione di gusti e opinioni e, ha avvisato Varanini, c’è un inquietante filo rosso tra le colonne inquadrate delle parate naziste e staliniste e le masse di follower che seguono senza possibilità di interloquirvi i leader del nuovo pulpito digitale. Questi leader poi devono essere loro stessi esperti di strumenti digitali oppure avere alle spalle un team che lo sia per davvero, perché i linguaggi di questi strumenti sono nuovi e fuori dalla portata dei semplici cittadini e di chi non è adeguatamente formato. I codici informatici, infatti, sono accessibili a una ristretta fascia di tecnici e quindi si perde la capacità di parlare assieme. “Se immaginiamo una nuova democrazia digitale, il primo argomento dovrebbe essere come immaginare e riedificare un parlare comune sul terreno digitale”, ha spiegato Varanini.

I limiti (pericolosi) della fiducia nell’algoritmo

Cortiana ha messo in evidenza le limitazioni intrinseche degli algoritmi, ricordando che per quanta complessità si possa sviluppare – e di contro per quanta potenza di Machine learning ci si possa dotare – alla base di ogni algoritmo vi stanno precise stringhe di codice che delimitano in modo assoluto i suoi campi d’azione. “Se una mela cade davanti a Newton, questi elaborerà l’evento e formulerà una nuova legge sulla gravità. Se una mela cade davanti a un sensore, quello elaborerà solo i dati per cui è stato programmato. Se una mela cade su una tastiera, avremo solo una sequenza casuale di numeri e lettere”.

Un esempio, quello citato da Cortiana che mette in mostra come gli algoritmi che regolano il mondo digitale siano comunque fissati alla loro codificazione primaria, non potendo aprirsi all’imprevisto, al non codificato. Se gli algoritmi finiscono per regolare il dibattito pubblico, si assiste a un cambio di processo cognitivo. Anche i cittadini allora finiscono per chiudersi alle novità e a ragionare secondo modelli predefiniti, chiudendosi al confronto. E si torna (anche) all’agorà digitale e all’illusione di poter avere voce in capitolo, nonostante si sia ‘semplici follower’.

Secondo Giannotti, tuttavia, l’attuale “linguaggio macchinico”, come lo ha definito Barbieri nel suo intervento, è stato realizzato da tecnici asettici che hanno lavorato senza riguardo per le implicazioni sociali di quanto programmavano. Così i social network sono capaci di profilare gli utenti sulla base di singoli like, commenti e visualizzazioni e di offrire soltanto contenuti in linea con quanto già hanno dimostrato di apprezzare. Dal punto di vista di marketing è una possibilità eccezionale, ma da quello politico ha rinchiuso ogni utente in una ‘bolla’ culturale e ideologica da cui l’algoritmo tiene lontano ogni opinione contraria, diversa o anche solo espressa in modo non culturalmente conforme all’utente. L’effetto finale è quello di creare una miriade di fazioni isolate e ostili fra loro.

Ma non è tutto perduto però. Ha spiegato Giannotti: “Non si può fermare questa rivoluzione digitale, però possiamo dirigerla nella direzione che vogliamo”. La soluzione, che l’istituto da lei diretto ha proposto anche alla Commissione europea è inserire la questione etica nel lavoro dei programmatori di algoritmi. L’etica, infatti, non è un valore statico e definito; Giannotti l’ha descritta così. “È inserire nella tecnologia il rispetto della capacità di decisione autonoma dell’essere umano”. Inoltre le bolle andrebbero ‘bucate’, ha sostenuto l’esperta, non solo fra utenti ma anche fra archivi di dati.

Per esempio, si prenda il caso della realizzazione del vaccino per il Covid-19: si è arrivati alla sua creazione grazie alla condivisione della conoscenza tra i ricercatori di tutto il mondo. Invece molti dati di interesse pubblico sono tenuti divisi tra aziende e anche organizzazioni pubbliche come le Asl. Per Giannotti andrebbero resi accessibili – che non vuol dire aperti – perché soltanto la condivisione della conoscenza può consentire sviluppo e innovazione.

digitale, social network, democrazia, democratura

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