Desiderare il controllo

L’Era digitale deve spingerci a chiederci cosa voglia dire essere umani. E quanto spazio vogliamo cedere alle macchine.

Uomo e macchina. Un binomio al quale conviene abituarsi. Ma quanto spazio siamo disposti a cedere alle macchine? La tecnologia ci supporta, ma fino a che punto? Per fare cosa? Prendiamo la tecnologia a supporto delle mamme, o dei genitori. Il primo spontaneo commento è che sono felice di avere superato i 50 anni e di non essere una mamma nell’era di WhatsApp. Già trovavo intollerabili certe intromissioni dei genitori nelle vicende scolastiche, ora le chat di classe (dei genitori ovviamente) danno la misura di una deriva che lascia poche speranze: autonomia e responsabilizzazione, soft skill tra le più gettonate nel mondo delle imprese, non solo non vengono coltivate ma scientemente disincentivate. Grazie alle nuove tecnologie, naturalmente.

Ho vissuto gli albori del registro elettronico. Uno strumento infernale, per cui se tuo figlio prende 4 in Greco tu, genitore, lo sai ancora prima che l’insegnante lo scriva sul registro. Con il risultato che il pargolo non ha più né tempo né modo per riparare in autonomia (riuscendo così a tener nascosto il fattaccio) né tantomeno per inventare qualche narrazione suggestiva che mitighi l’esito del mancato studio, se mai venisse scoperto. Un peccato, perché la creatività è un’altra delle doti ricercatissime nelle aziende di oggi. Ma niente da fare, l’innovazione tecnologica non ha spazio per i segreti.

Pubblichiamo ossessivamente sui social tutto quel che ci succede: un evento, se non ha rilevanza mediatica, non merita quasi di essere vissuto, come se la nostra vita si dipanasse in funzione di quel che si può mostrare e non di ciò che ci fa piacere vivere autenticamente. Una finzione collettiva dove solo chi ha una personalità forte si concede il lusso di mantenersi in ombra.

Oggi è tutto tracciato, con enorme leggerezza regaliamo dati su di noi ignorando il valore di quel che stiamo concedendo gratuitamente. E qui sta il problema, siamo ignoranti, nel senso che ignoriamo, come diceva Totò, funzionamento e logiche delle piattaforme. In cambio di ‘piccoli’ sconti permettiamo alle catene della grande distribuzione di tracciare precisissimi profili su di noi. Consideriamo lo sconto un grande vantaggio, ma abbiamo idea di quanto valgono i dati che ci riguardano, e che cediamo con incomprensibile leggerezza? Non lo sappiamo, perché se avessimo idea del loro valore ci faremmo pagare. E invece, forti della nostra ignoranza, i padroni delle piattaforme ingigantiscono i guadagni a suon di like.

Ma davvero continueremmo a ossessivamente a mettere like su Facebook se avessimo consapevolezza dell’entità dei guadagni della piattaforma, e chi si promuove attraverso di essa? Se fosse chiaro che ogni nostro like genera una traccia digitale, un’informazione che può essere utilizzata per fabbricare un profitto di cui i beneficiari non saremo noi, continueremmo a farlo con tanta leggerezza?

Dal creare gruppi di interesse –i fan di una pagina– al controllo, il passo è breve. Ora che quasi tutto viene gestito da piattaforme (acquisti, pagamenti, transazioni bancarie e prenotazioni sanitarie) abbiamo già fatto un pericoloso upgrade: non viene semplicemente tracciato il nostro profilo, viene creato quello che in gergo si definisce ‘digital twin’, il nostro gemello digitale.

Lo sanno bene in Cina dove con questo sistema il governo controlla i cittadini con un sistema di credito sociale, come spiega bene Francesco Varanini nel suo libro Le cinque leggi bronzee dell’era digitale. E perché conviene trasgredirle (Guerini & Associati, 2020; disponibile dal 10 settembre 2020). A ogni cittadino viene assegnato un credito e il suo comportamento influisce sul ‘rating’ personale, che determina la sua libertà di movimento: alcune azioni saranno negate se il cittadino non avrà sufficiente credito.

Il supporto della tecnologia all’umanità è evidente. Nessuno vorrebbe tornare all’aratro, o per fare un esempio più pertinente a questo blog, chi rinuncerebbe a una lavatrice o a un frigorifero? Ma ora che siamo circondati da dispositivi smart, la questione si sta complicando. Se il mio frigorifero parla con Amazon, chi decide cosa porto in tavola? Il rischio di perdere il controllo c’è e noi dobbiamo avere contezza del pericolo.

Dobbiamo sapere che l’intelligenza artificiale è un business che rischia di essere gestito da 4 o 5 attori in tutto il mondo. Anzi, possiamo dire che sia già così: le trattative per l’acquisto della divisione americana della cinese TikTok non sono che un tentativo per arginare l’accesso della Cina ai dati dei cittadini americani.

Ma le piattaforme sono progettate così, l’obiettivo è tenere lontano l’utente dal loro funzionamento, confinare le sue attività all’interno di schemi rigidi e far sì che vengano riversate all’interno quante più informazioni possibili. Cui prodest, dicevano i Latini. A pochi, pochissimi. E questo è un problema. Enorme. Non solo perché l’intelligenza artificiale sarà presto in grado di sostituire qualsiasi lavoro umano, ma soprattutto perché sono in pochi ad avere risorse e mezzi per fare ricerche: che uso verrà fatto dell’intelligenza artificiale? Che spazio verrà lasciato all’uomo?

Interessante notare come gli studiosi di intelligenza artificiale siano tutti uomini. Il desiderio di creare un essere che viva di vita propria deve essere per forza tipico di un uomo visto che le donne traggono parte della loro forza dalla potenza della creazione e non sentono il bisogno di creare alcuna intelligenza artificiale visto che sono le uniche in grado di produrne di umana.

Ma la donna è la creatura dell’eccesso, diceva Aristotele: è l’unico mammifero che, nel lungo periodo fertile, può procreare sempre e questo ha giustificato il controllo matrimoniale su di loro, come ci ha spiegato anni fa la psicologa Silvia Vegetti Finzi. Questo potere, forse, agli uomini non va giù. Fatto sta che a furia di pensare a come modificare questa situazione, la ricerca va avanti con l’obiettivo di produrre uteri artificiali.

Forse, a furia di tenere lo sguardo chino sui nostri smartphone, sulle piattaforme che occupano uno spazio incomprensibilmente importante nella nostra vita e che ci suggeriscono cosa fare, cosa comprare, dove andare, abbiamo smesso di alzare lo sguardo e stiamo perdendo la capacità di formulare desideri che siano nostri.

L’Era digitale – scrive Varanini – deve spingerci a chiederci cosa voglia dire essere umani. Goethe ci ricorda che ‘solo l’uomo può l’impossibile’ ed è proprio la capacità dell’essere umano di spingersi sul terreno dell’impossibile a distinguerlo dalla macchina. Dobbiamo difendere la nostra capacità di generare futuro e, quanto a capacità generatrice, le donne non hanno nulla da imparare dalle macchine. Bene marcare la differenza. E anche di fronte alla più sofisticata delle macchine, imparare a tenere salda la capacità di controllo.

Discuteremo dei contenuti dell’ultimo libro di Francesco Varanini nel corso di cinque incontri a partire dal 7 settembre alle ore 12 https://www.este.it/eventi-per-data/892-cinque-narrazioni-della-trasformazione-digitale-la-vera-storia-di-alan-turing-un-bambino-poco-amato.html

Francesco Varanini, Le cinque leggi bronzee dell’era digitale. E perché conviene trasgredirle, Guerini e Associati, Milano 2020.

Il volume uscirà il 10 settembre e può essere pre-acquistato a questo link: https://www.amazon.it/bronzee-dellera-digitale-conviene-trasgredirle/dp/8862507682

 

Francesco Varanini, Intelligenza artificiale, robotica, innovazione tecnologica, Le cinque leggi bronzee dell'era digitale, Silvia Vegetti Finzi


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Chiara Lupi

Articolo a cura di

Chiara Lupi ha collaborato per un decennio con quotidiani e testate focalizzati sull’innovazione tecnologica e il governo digitale. Nel 2006 ha partecipato all’acquisizione della ESTE, casa editrice storica specializzata in edizioni dedicate all’organizzazione aziendale, che pubblica le riviste Sistemi&Impresa, Sviluppo&Organizzazione e Persone&Conoscenze. Dirige la rivista Sistemi&Impresa e governa i contenuti del progetto multicanale FabbricaFuturo sin dalla sua nascita nel 2012. Si occupa anche di lavoro femminile e la sua rubrica "Dirigenti disperate" pubblicata su Persone&Conoscenze ha ispirato diverse pubblicazioni sul tema e un blog, dirigentidisperate.it. Nel 2013 insieme con Gianfranco Rebora e Renato Boniardi ha pubblicato il libro Leadership e organizzazione. Riflessioni tratte dalle esperienze di ‘altri’ manager. Nel 2019 ha curato i contenuti del Manuale di Sistemi&Impresa Il futuro della fabbrica.

Chiara Lupi


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