Di chi è l'azienda?

Di chi è l’azienda?

“Al terzo venerdì sera che il titolare è venuto a dirmi alle 18.30 che io il sabato, giorno in cui non avrei dovuto lavorare, sarei dovuto andare in azienda perché c’era una necessità improvvisa, alla terza volta in cui ho dovuto cambiare i miei programmi per il sabato, gli ho detto che io non potevo continuare a vivere male perché lui non sapeva organizzare la sua azienda”.”È Sebastiano Zanolli a citare queste parole, ospite durante una puntata di PdM Talk, il talk di cultura d’impresa di ParolediManagement. Riferisce di averle sentite, durante un evento, da un giovane che ha lasciato l’azienda in cui lavorava dopo pochi mesi, per il motivo di cui sopra.

Di fronte a questa affermazione, io che ho quasi 40 anni, rimango esterrefatta. Per due motivi. Il primo riguarda la presunzione con cui ritengo che il ragazzo si sia rivolto al suo datore di lavoro. Un atteggiamento inconcepibile per, immagino, molte persone della mia generazione. Il secondo riguarda il senso di dualismo che si percepisce dalla dichiarazione del giovane: ‘io’ non posso vivere male perché ‘tu’ non sai organizzare la tua azienda. Una lotta tra due poli opposti. E se la chiave stesse nel mettersi nell’ottica di fare qualcosa ‘insieme’ per organizzare meglio questa azienda che è sì di proprietà dell’imprenditore, ma è anche un sistema in cui io dipendente contribuisco, nel bene e nel male almeno per una (piccola) parte.

Quel sistema che dà valore al mio lavoro e, non da ultimo, che mi dà da vivere. Che contribuisce a dare un senso a quello che faccio nelle mie giornate per otto ore, e che quindi contribuisce a definire quello che sono. Probabilmente io ho una visione troppo romantica del lavoro: sono inebbriata dai fumi del capitalismo e non riesco a vedere che sono solo una pedina di un sistema marcio che va assolutamente combattuto…

La responsabilità di stare in azienda

Quel che mi sorprende di tutta questa lotta promossa dalle giovani generazioni verso il modo di lavorare dei loro padri è che sia fondata su una polarizzazione che oggi trovo profondamente anacronistica, che nemmeno all’epoca della lotta di classe. Il giovane dipendente oggi è per definizione sfruttato ed entra in azienda con atteggiamento guardingo, senza disfare la valigia, perché tanto, al primo atteggiamento che gli fa storcere il naso e che si discosta dalla narrazione ‘social’ del lavoro ideale, si può sempre cambiare e migrare verso altri lidi. Anche il lavoro ‘si scrolla’, con la stessa rapidità e la superficialità con cui il nostro pollice scorre su uno smartphone.

Da un lato si teorizzano nuovi modi di lavorare in cui il patto alla base del lavoro si fonderebbe sul raggiungimento degli obiettivi e quindi sull’assunzione di responsabilità, abbandonando la misurazione della performance fondata sul tempo lavorato. Si teorizzano modelli di azienda agile, senza gerarchie, dove ognuno è chiamato a essere imprenditore di se stesso e rispondere per il proprio territorio di responsabilità. Dal lato opposto ragioniamo ancora con la mentalità di chi cronometra le ore e non riesce a guardare oltre il proprio orticello di mansioni. Di chi timbra il cartellino alle 18.01 e già pensa di aver regalato al datore di lavoro un minuto del suo tempo.

Scommetto che se questo ragazzo fosse stato in grado di ‘stare’ meglio in azienda, di osservare, di mantenere uno sguardo di insieme verso quanto succedeva intorno a lui per adattare il tiro del proprio fare e renderlo coerente con il resto del sistema-azienda (cosa che ritengo fondamentale sia per chi inizia a lavorare anagraficamente parlando, sia per chi, indipendentemente dall’età, si trova ad avviare il proprio percorso in una nuova azienda), sarebbe stato in grado di cogliere dei segnali che gli avrebbero palesato piano piano la ferale ‘necessità (non più così) improvvisa’.

Forse farlo costa troppa fatica o forse costa troppa fatica dover guardare negli occhi queste ‘necessità improvvise’ e si preferisce nascondere la testa sotto al tappeto del proprio orario di lavoro, nell’attesa del suono della campanella che sancisce la liberazione dalla prigionia. Per parafrasare John Fitzgerald Kennedy: “Non chiederti cosa l’azienda può fare per te ma cosa tu puoi fare per l’azienda”. Il che non significa prostrarsi allo stipendio non pagato, ai comportamenti penalmente perseguibili in contesto lavorativo, alle vessazioni e alle ingiustizie, ma nemmeno tenere la testa china sul proprio mansionario e non essere in grado di contestualizzare il proprio lavoro all’interno di un sistema organizzativo.

Perché, se è vero che l’azienda non è la ‘grande famiglia’ che i più paternalisti ci vogliono vendere, è altrettanto vero che, per quanto ci spingano a lavorare ognuno dalle proprie case, il lavoro è e rimane innanzitutto ‘relazione’: occorre essere disposti ad aprirsi all’altro, andare oltre la propria singolarità, ragionare come comunità. “Comunità”, dal latino communitas, derivato di communis, “che è comune a molti o a tutti, condiviso”. Per tutti gli altri c’è la libera professione. O forse neanche quella.

cultura del lavoro, Generazioni, Reponsabilità


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Martina Galbiati

Martina Galbiati è Responsabile Marketing della casa editrice ESTE

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