Divieto di licenziamento e sostegno al reddito: ritorno al passato
Tra le misure adottate dal Governo nelle ultime settimane per far fronte all’emergenza coronavirus, particolare clamore ha suscitato il divieto dei licenziamenti fino al 17 maggio 2020 per motivi economici, sia individuali sia collettivi, come stabilito dall’articolo 46 del decreto Cura Italia. Il successivo decreto Chiudi Italia (22 marzo 2020) ne ha sensibilmente aggravato le implicazioni: sono stati vietati i licenziamenti alle molte imprese non ‘strategiche’, costrette a periodi di forzata inattività; nonché a quelle che già prima dell’emergenza avevano in prospettiva una ristrutturazione, se non la chiusura.
In questo scenario sono molti a chiedersi se la retribuzione, a fronte di una prestazione lavorativa di fatto irrealizzabile e nei casi in cui lo Smart working non è percorribile, sia comunque dovuta, o al contrario il datore di lavoro possa dirsi liberato, sulla scorta della giurisprudenza più recente. E così, per quei lavoratori che possono accedervi, se il ricorso alla cassa integrazione rappresenti una scelta obbligata, oppure una mera opzione.
Un passato non troppo remoto può allora tornare a riferimento, per affrontare la complessità di questo delicato momento storico.
La retribuzione senza lavoro nel Secondo Dopoguerra
Nel Secondo Dopoguerra è già successo: nel 1946 il tessuto produttivo italiano non aveva ancora preso quello slancio che avrebbe portato, di lì a qualche anno, al boom economico del nostro Paese. Molte imprese erano ferme; non tutte, e non tutti i loro dipendenti, potevano accedere agli ammortizzatori sociali. Allora come oggi, una normativa adottata su pressione della Cgil unitaria, a partire dal D.lgs Lgt. 523 del 21 agosto 1945 stabilì il blocco dei licenziamenti (eccetto che per una piccola percentuale di lavoratori, e ferma l’applicazione dei criteri di scelta).
Questo divieto è durato fino al 7 agosto 1947. In quel periodo, le ulteriori intese tra Cgil e Confindustria aggiunsero qualcosa in più: per effetto degli accordi interconfederali firmati il 30 marzo 1946 e il 23 maggio 1946 a tutela della categoria impiegatizia, i datori di lavoro avrebbero continuato a farsi carico del relativo sostentamento, versando la retribuzione ai loro subordinati pur nell’assenza di prestazione lavorativa. Fu una misura di forte impatto sociale, per quelle classi di lavoratori, quali gli impiegati, che non potevano contare sugli ammortizzatori sociali allora assicurati alla classe operaia.
Con tali accordi, le industrie italiane si impegnarono dunque a tener fermo l’obbligo retributivo anche a fronte di sospensioni del lavoro “disposte dall’azienda”, financo quelle stabilite “dalle competenti autorità”. Proprio lo scenario, il secondo, che con l’emanazione del decreto Chiudi Italia molte delle nostre imprese stanno vivendo. È interessante notare che con i successivi Dpr 1097 e 1098 del 1960 questi accordi vennero resi applicabili erga omnes in tutto il settore industriale.
Meglio ricorrere a sospensione retribuita?
Se l’efficacia ratione temporis del divieto di licenziamento nel periodo post bellico è venuta meno, lo stesso non può dirsi, con altrettanta fermezza, di quegli accordi interconfederali. È pur vero che alcune decisioni della Corte di cassazione, a cavallo tra la fine degli Anni 80 e i primi Anni 90, hanno ritenuto che quell’obbligo di versare la retribuzione, a integrazione degli ammortizzatori sociali applicabili, non sia più compatibile né cumulabile con il sistema degli ammortizzatori sociali vigente (si veda, tra le tante, la decisione della Corte di cassazione 6103 del 21 maggio 1992).
Ed è pur vero che la giurisprudenza, come detto, nel corso degli ultimi anni ha riconosciuto che in certe situazioni di inattività, non imputabili all’impresa datrice, la retribuzione possa non esser dovuta. Ma è anche vero che nessun provvedimento legislativo, per quanto consta, ha mai esplicitamente sancito l’abrogazione di tali previsioni, che ripetiamo hanno forza di legge, seppur limitatamente a uno specifico settore, quello industriale, e alla sola categoria impiegatizia.
Ma anche a guardare il blocco dei licenziamenti post bellico e l’impegno assunto allora dalle associazioni datoriali per riconoscere la retribuzione come prassi del passato, possono offrire una chiave di lettura del presente. L’impressione che rimane, raffrontando i provvedimenti del 1946 con quelli dell’attuale Governo, è che in certe situazioni un datore di lavoro, pur essendogli negato di svolgere l’attività d’impresa, non possa sistematicamente ritenersi esonerato dalla prestazione retributiva.
In questo quadro resta preferibile, per gestire la forza lavoro inattiva in questo delicato frangente, ricorrere a forme di sospensione retribuita (come lo smaltimento delle ferie o periodi di congedo, anche straordinario), nonché agli ammortizzatori sociali con causale “Covid-19” che la legiferazione emergenziale ha appositamente finanziato.
* Gli autori appartengono allo Studio legale Nunziante Magrone
Giuseppe Cucurachi ha un’esperienza ventennale nel Diritto del Lavoro, della previdenza sociale, dell’agenzia e delle relazioni industriali. Opera prevalentemente nell’ambito della consulenza giuslavoristica a gruppi multinazionali, nell’ambito della contrattualistica, dei sistemi di remunerazione, dei trasferimenti d’azienda, delle riorganizzazioni e ristrutturazioni. Patrocina controversie giuslavoristiche, anche innanzi alle Corti Superiori. Già collaboratore, poi socio e responsabile del dipartimento di Diritto del Lavoro di primari studi italiani, Cucurachi è entrato in Nunziante Magrone come socio fondatore e responsabile del giuslavoro nel gennaio 2015.
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