E se anche il Pnrr fallisse sull’occupazione femminile?

In Italia le donne che non lavorano né cercano occupazione – le cosiddette inattive – tra i 30 e i 69 anni sono oltre 7 milioni, cioè il 43% del totale in questa fascia d’età. Tantissime, se rapportate al numero di poco più di 20 milioni di occupati e alla media di donne inattive dell’Unione europea (32%). Lo rivela un recente studio europeo di Randstad research. Dalla ricerca, inoltre, emerge che si tratta di un fenomeno apparentemente immutabile, se si considera che a livello aggregato il tasso di attività è rimasto fermo dal 1990 a oggi, e che colpisce soprattutto il Sud e le Isole, dove più di una donna su due (58%) è inattiva, mentre al Nord tre su 10. “La presenza delle donne nel mercato del lavoro pagato è stata una rivoluzione inattesa nel Novecento, perché c’è stato un movimento di fuoriuscita dalle case quasi di massa. Questo non vuole dire, però, che le donne abbiano trascurato o abbandonato il lavoro non pagato della cosiddetta ‘riproduzione’ della vita quotidiana e della cura dei familiari”, spiega la filosofa e saggista Annarosa Buttarelli.

Riferendosi al presente, l’esperta fa anche notare che molta manodopera femminile – come quella di assistenza domiciliare ad anziani o bambini – non è presa in considerazione dalle statistiche perché spesso non regolarizzata. Un’altra causa dei numeri dichiarati dalla ricerca sta, per la filosofa, nella ‘ritirata’ dello Stato dalla cura del welfare che c’è stata negli ultimi anni e che ha comportato l’aziendalizzazione selvaggia dei servizi sanitari, degli asili e delle scuole materne. Per esempio, i dati presentati dall’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) nel 2017 descrivevano bene la situazione del sistema sanitario italiano già prima del Covid: nel periodo 2009-2016 la spesa sanitaria totale per abitante ha fatto registrare una contrazione media annua dello 0,3%, una delle peggiori performance dei paesi Ocse che hanno registrato, invece, un incremento medio dell’1,4%.

Potenziare i servizi della prima infanzia non è comunque sufficiente

Nella fascia di età 30-69 anni le donne inattive risultano, in stragrande maggioranza, casalinghe a tempo pieno (4,5 milioni), per scelta o perché obbligate come conseguenza di scoraggiamento per le barriere all’ingresso o al ritorno nel mercato del lavoro. “Molto spesso si verifica l’abbandono del posto di lavoro per tornare a occuparsi esclusivamente della famiglia, anche a livelli dirigenziali. In sostanza, le cifre delle donne che entrano e di quelle che escono dal lavoro retribuito sono a somma zero”, riferisce Buttarelli. ll tasso di inattività femminile è fortemente legato all’età: dal 70,6% delle donne attive tra i 35 e i 44 anni si scende al 47,4% tra i 55 e i 64 anni. La ricerca di Randstad presa in esame sottolinea anche che in Italia la spesa pubblica in asili nido è solo lo 0,08% del Pil, tra le più basse d’Europa (la Germania spende più del doppio in rapporto al Pil, la Francia quasi 8 volte tanto e la Svezia 13 volte tanto).

È previsto comunque dal Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) un investimento da 4,6 miliardi di euro per aumentare di quasi 265mila posti i servizi della prima infanzia. “Non nutro fiducia nel concreto realizzarsi delle promesse mirabolanti”, commenta a tal proposito Buttarelli. Anche l’assunzione di centinaia di migliaia di posti di lavoro nei servizi della prima infanzia per la filosofa non sarebbe sufficiente perché servirebbe che queste persone siano formate in una maniera completamente nuova, per rispondere alle esigenze dei nostri giorni. “Ci aspettano situazioni e trasformazioni che richiedono prima di tutto una trasformazione della forma mentis generale, altrimenti ogni proposta concreta sarà deformata o sottoposta a interpretazione inappropriata dalla nostra classe politica”, chiosa l’esperta.

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Elisa Marasca

Elisa Marasca

Elisa Marasca è giornalista professionista e consulente di comunicazione. Laureata in Lettere Moderne all’Università di Pisa, ha conseguito il diploma post lauream presso la Scuola di Giornalismo Massimo Baldini dell’Università Luiss e ha poi ottenuto la laurea magistrale in Storia dell’arte presso l’Università di Urbino. Nel suo percorso di giornalista si è occupata prevalentemente di temi ambientali, sociali, artistici e di innovazione tecnologica. Da sempre interessata al mondo della comunicazione digital, ha lavorato anche come addetta stampa e social media manager di organizzazioni pubbliche e private nazionali e internazionali, soprattutto in ambito culturale.

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