Dimissioni_libro

È tempo di riprenderci la vita (sacrificando il lavoro)?

Il lavoro nobilita gli esseri umani: questo è il grande assunto che ha accompagnato alcune generazioni attualmente in azienda. E che oggi è capovolto da un fenomeno che sta portando milioni di persone in tutto il mondo ad abbandonare il posto di lavoro: la tendenza è stata ribattezzata “Great resignation” ed è il punto da cui parte l’analisi di Francesca Coin, sociologa che si occupa di lavoro e diseguaglianze sociali, nel libro dal titolo Le grandi dimissioni (Einaudi, 2023).

Negli ultimi anni la pandemia ha sicuramente fornito spunti di riflessione e invitato molte persone a porsi qualche domanda in più circa la possibilità di cambiare vita, sulla qualità del lavoro e sul tempo speso per le attività lavorative. Così l’autrice, attraverso il racconto del vissuto dei lavoratori, offre una fotografia di un movimento tutto italiano che ha portato moltissime persone, ormai esauste, a rassegnare le dimissioni. Nel 2021, infatti, la nota trimestrale del Ministero del Lavoro aveva evidenziato 485mila casi di licenziamento volontario, cioè l’85,2% rispetto al 2020; l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) ravvisava già allora che l’Italia era l’unico Paese in Europa ad aver diminuito gli stipendi negli ultimi 20 anni.

Perché lasciare un lavoro in un periodo in cui dovrebbe essere un privilegio? “È il sintomo della fine dell’epoca in cui regnava la speranza che il lavoro consentisse di realizzare i nostri sogni; il sistema in cui viviamo è rotto e in questo contesto spesso chi abbandona il lavoro non lo fa perché può permetterselo, lo fa per sopravvivere. Lo fa perché non ce la fa più, perché è in burnout”, scrive Coin andando dritta al cuore del disagio.

Lavorare e non riuscire a far fronte alle spese

Oggi chi può lavorare non riesce comunque a sentirsi realizzato perché nonostante l’impiego di tempo ed energie rimane comunque impossibilitato a far fronte a tutte le spese mensili. Un arrancare che conduce a stanchezza e frustrazione, e su questo aspetto, l’autrice scrive: “Il vero problema non è chi può permettersi di non lavorare, ma chi lavora sempre e nonostante questo non riesce a racimolare i soldi per pagare sia l’affitto sia la cena”. Il fenomeno dei ‘lavoratori poveri’ è ben noto in Italia e da tempo è monitorato: secondo l’ultima rilevazione Istat del 2021, nel nostro Paese ci sono circa 2,6 milioni di occupati poveri, cioè percepiscono un reddito inferiore alla cosiddetta “povertà relativa” (per un lavoratore single, è la soglia di 11.500 euro l’anno).

Carichi di lavoro pesanti, ritmi frenetici, sacrifici troppo elevati fanno sì che, a un certo punto, la corda si spezzi e che si vada alla ricerca di un’alternativa, anche a discapito di quella illusoria sicurezza data da uno stipendio, che si rivela comunque insufficiente. A onor di cronaca, però, c’è da rilevare che una spiegazione alternativa alle ‘dimissioni di massa’, l’ha fornita l’Adapt nell’estate 2022, spiegando che dietro al fenomeno c’è stato ‘solo’ un cambio di lavoro: più che un addio alle aziende motivato dalla volontà di dedicarsi alle attività private, a spingere al licenziamento è stata volontà di spostarsi in altre imprese, forse per godere di stipendi più alti.

La stessa autrice ha messo in luce che già prima della pandemia un sondaggio svolto in 140 paesi dimostrava che l’80% degli intervistati non era soddisfatto del proprio lavoro. Le motivazioni dunque potrebbero includere, oltre a un trattamento poco soddisfacente da parte di alcune aziende, anche una presa di coscienza generale e dunque anche una tendenza del tutto positiva, per cui non si è più disposti a ricoprire ruoli che non portano a una soddisfazione personale più profonda dello stipendio. Una massima assai nota recita: “Fai un lavoro che ti piace e non lavorerai nemmeno un giorno”.

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