Employer branding oltre la strategia, il coinvolgimento porta benessere

Essere competitivi sul mercato è l’obiettivo di tutte le aziende: si punta a far in modo che il proprio prodotto, o servizio, venga venduto più di quello dei competitor, a garantire maggiore qualità per poter attrarre sempre più clienti, ad aumentare fatturato e profitti.

Acquisire nuovi consumatori è anche un modo efficace per creare una buona immagine del prodotto o del servizio, non solo attraverso i canali di marketing tradizionale, ma grazie al passaparola: un cliente soddisfatto farà infatti una buona pubblicità al prodotto acquistato, all’interno del proprio network di conoscenze.

Ora, trasponendo il concetto di Product marketing all’interno della cornice dell’HRM, l’attenzione delle aziende si sposta su un altro tipo di mercato: quello del lavoro. Product brand e Employer brand sono due facce della stessa medaglia, due linee di azione che non possono prescindere l’una dall’altra, direttamente interconnesse in quanto confluiscono all’interno di uno stesso obiettivo: il bene – economico, ma non solo – dell’azienda. L’Employer branding (Eb), in ogni caso, non si collega esclusivamente alla talent acquisition, ovvero all’intenzione di attrarre i migliori talenti presenti sul mercato del lavoro. Vi è infatti una seconda intenzionalità, questa volta a favore del lavoratore.

Un Eb fondato su una reale esperienza di benessere dei propri dipendenti e collaboratori si tramuta in un maggiore engagement, che a sua volta porterà risultati, tangibili e intangibili, importanti per l’azienda soprattutto sul medio-lungo periodo. Come verrà argomentato in questo contributo, gestire l’Eb significa occuparsi di organizzazione ad almeno tre livelli.

È per questa ragione che l’Eb può essere annoverato tra le attività che vanno ‘oltre la strategia’: un possibile punto di incontro tra le necessità dell’azienda e quelle dei lavoratori, con particolare riguardo a quelle dimensioni psicologiche che conducono a esperienze di benessere e a comportamenti organizzativi orientati all’obiettivo comune.

Caratteri dell’employer branding

Il costrutto di Eb è stato studiato in diversi settori e contesti produttivi, senza tuttavia giungere a una definizione univoca. Gli esperti Tim Ambler e Simon Barrow (1996), nel loro pioneristico lavoro, definiscono l’Eb come “il pacchetto di benefici funzionali, economici e psicologici forniti dal datore di lavoro e identificati con l’azienda”, in cui:

  • i benefici funzionali si riferiscono a tutte quelle pratiche aziendali che permettono al lavoratore di raggiungere un buon grado di soddisfazione, in riferimento alla posizione (livello di responsabilità, autonomia lavorativa e decisionale, possibilità di carriera), ma anche alle opportunità di accrescere le competenze di mestiere e trasversali (formazione, coaching, mentoring, ecc.);
  • i benefici economici si riferiscono alle politiche di compensation;
  • i benefici psicologici sono, invece, i “sentimenti come appartenenza, direzione e scopo” e si rimandano dunque al senso di identificazione nei confronti del proprio datore di lavoro e dell’organizzazione.

Quest’ultimo aspetto viene definito affective commitment, i cui risultati si riscontrano nel fatto che “gli individui restano nell’organizzazione perché lo vogliono” (Cortese, 2005) e ne condividono valori, mission, vision e cultura. In un contributo del 2007, gli studiosi Filip Lievens, Greet Van Hoye e Frederik Anseel hanno sostenuto che questa identificazione con il lavoro riguarda principalmente la considerazione di sé di ogni individuo.

Nel Test del cocktail party, gli autori ipotizzano che uno degli argomenti di dialogo quando si fa conoscenza con qualcuno sia quello del lavoro, il che porterà a parlare dell’organizzazione di cui si fa parte. Le reazioni a questa domanda possono essere due.

In un caso la conversazione viene indirizzata verso altri argomenti, senza approfondire quanto detto, in quanto i nostri interlocutori non si dimostrano interessati; nell’altro caso, i nostri interlocutori mostrano curiosità per quanto abbiamo detto, il che può suggerire che l’azienda per cui lavoriamo abbia una buona reputazione ai loro occhi.

Questo piccolo esperimento mostra come generalmente le persone tengano in grande considerazione ciò che gli altri pensano dell’impresa in cui lavorano e di cui fanno parte; il che porta a confermare che l’appartenenza a un’organizzazione riguarda il proprio concetto di sé, in particolare del sé professionale (Pombeni, 2010).

Ma perché un’azienda dovrebbe puntare sull’identificazione dei lavoratori? E quale può essere il ritorno – non solo economico, ma anche di benessere soggettivo e di buon funzionamento dei processi – di un intervento che miri a potenziare una caratteristica così soft?

Il valore dell’employer branding

Il modello interpretativo derivato dal già citato studio di Lievens et al. è stato denominato ‘strumentale-simbolico’, in quanto concepisce una strategia di Eb che punta su due aspetti:

  • quelli funzionali-strumentali, che descrivono l’employer da un punto di vista concreto, in base a cosa offre di oggettivo e tangibile. I dati raccolti evidenziano otto aspetti riconducibili a questa categoria: l’opportunità di attività sociali o in team; l’opportunità di fare sport; l’erogazione di uno stipendio adeguato; l’opportunità di carriera; la sicurezza del lavoro; la diversità delle attività; l’opportunità di lavorare in un ambiente strutturato e l’opportunità di fare dei viaggi;
  • quelli simbolici, che sono invece soggettivi, astratti e intangibili, e sono riassumibili in senso di orgoglio, percezione di “rispettabilità” e attribuzione di “competenza” all’organizzazione (Aaker, 1997).

Le conclusioni a cui sono giunti gli autori sono: entrambi gli aspetti, strumentali e simbolici, impattano positivamente sull’attrattività dell’employer, ma solo alcuni dei secondi (senso di orgoglio nell’appartenenza e senso di rispetto che suscita l’azienda) hanno conseguenze vantaggiose sull’identificazione.

Come si può notare, inoltre, per quanto riguarda l’identificazione, agli aspetti simbolici vanno aggiunte le percezioni dell’immagine dell’employer, che possono essere distinte in identità organizzativa percepita, ovvero ciò che i membri di un’organizzazione pensano di essa, e immagine esterna costruita, ossia ciò che gli individui interni all’impresa percepiscono dell’opinione che gli esterni hanno sulla stessa.

La risposta ai quesiti proposti al termine del precedente paragrafo sta nel fatto che entrambe le dimensioni proposte hanno un impatto positivo su alcuni esiti che interessano le organizzazioni. Aspetti tangibili e che si ripercuotono in ambito economico, organizzativo e di benessere: job intention, job satisfaction, intenzioni di turnover, in-role ed extra-role performance (elementi a loro volta costitutivi dell’organizational citizenship).

Alla luce di tali risultati, è importante ribadire i princìpi-guida del nostro contributo: la promozione di un’immagine positiva dell’azienda ha dei risvolti sia dal punto di vista strategico-economico (guadagni dalle vendite dei prodotti o assunzione di talenti) sia da quello organizzativo.

In questo senso, l’Eb è un precursore del buon funzionamento dei processi di lavoro e del benessere delle persone. Anzi, si potrebbe dire che il benessere personale e relazionale è a sua volta fonte di un buon funzionamento dell’organizzazione, attraverso la maggiore disponibilità a mettere in atto i già citati comportamenti di organizational citizenship rivolti verso i colleghi, il management e l’organizzazione nel suo complesso (Cortese, 2006).

L’articolo integrale è pubblicato sul numero di Novembre-Dicembre 2019 di Sviluppo&Organizzazione.
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talent acquisition, benessere al lavoro, Employer branding, coinvolgimento dei lavoratori, affective commitment

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