Esperimenti sociali tra individualità e gruppo
Non sono pochi i film che hanno messo in scena le sperimentazioni sociali condotte fin dagli Anni 60 del Novecento. I più noti sono probabilmente L’onda (2008) del regista Dennis Gansel e The experiment – Cercasi cavie umane (2001) di Oliver Hirschbiegel. Il primo si ispira a quanto realizzato nel 1967 dall’insegnante Ron Jones in una scuola della California. Il secondo si basa sull’esperimento di Stanford del 1971, condotto dallo psicologo Philip Zimbardo, che ha simulato una situazione carceraria.
Esperimenti sociali con esiti negativi
Il film L’onda è ambientato in Germania, sulla scia del romanzo di Todd Strasser che ha avuto grande risonanza ed è stato diffuso nelle scuole di quel Paese. Sia l’esperimento originario sia il romanzo e poi il film hanno un respiro socio-politico ampio, in quanto condividono la motivazione di aiutare i giovani a comprendere le dinamiche psicologiche che favoriscono l’instaurarsi di una dittatura, pensando in particolare all’esperienza storica del nazismo. L’insegnante Rainer Wenger concepisce l’esperimento nell’ambito di una settimana tematica che gli viene affidata con la conduzione di una classe di studenti di liceo sull’argomento “autocrazia”.
Si procede quindi alla formazione di un gruppo organizzato, attraverso una serie di passaggi: designazione di un leader (nella persona dello stesso Rainer, che ottiene il consenso della classe); definizione di alcune regole, e del potere del capo di farle rispettare, funzionali all’obiettivo di generare unità, solidarietà ed eguaglianza nel gruppo; disposizione dei banchi nell’aula orientata a questo stesso obiettivo (rompendo così le precedenti aggregazioni); individuazione di un nome del gruppo (“l’onda”), di un logo che ne esprima l’identità (il disegno stilizzato dell’onda), di una divisa che esprima l’eguaglianza (una camicia bianca indossata sui jeans), di un saluto (il braccio destro che simula il profilo di un’onda). Si sviluppano anche azioni fisiche, come una marcia ritmata, dirette a rafforzare la coesione e intimidire gli studenti e i docenti esterni al gruppo.
L’iniziativa, andando oltre le aspettative dello stesso promotore, ottiene il consenso della maggioranza degli studenti, risponde a emozioni condivise, ma anche a pulsioni legate a frustrazioni di alcuni, e stimola azioni dimostrative da parte dei più convinti. L’opposizione di pochi, come l’uscita di due studentesse o la critica di colleghi di Rainer, ha l’effetto di rafforzare il gruppo. Lo stesso Rainer, insoddisfatto per la scarsa considerazione attribuitagli nella scuola per la sua formazione e per la materia insegnata (educazione fisica), si fa coinvolgere emotivamente, si carica quando nuovi studenti si uniscono al gruppo, gestisce le partite della squadra di pallanuoto che allena come ulteriore vettore di coesione interna e di conflitto con altri gruppi. Alla fine, c’è un esito tragico, ma in fondo anche l’apprendimento della lezione che si voleva impartire sul formarsi delle autocrazie.
L’oggetto di The experiment è più circoscritto: si tratta in pratica di un gioco di ruolo, nel quale le 26 persone selezionate (tutti uomini) vengono inserite nell’edificio strutturato come un carcere: 18 come prigionieri e i restanti otto con il ruolo di guardie, sulla base di alcune regole improntate a una rigida disciplina. Ben presto il clima degenera, tra carcerieri e reclusi si instaura un conflitto di intensità crescente, gli psicologi perdono il controllo della situazione e anche qui l’esito è negativo con l’interruzione dell’esperimento.
La manipolazione del gruppo e il contagio emotivo
Questi film, come altri analoghi, estremizzano naturalmente gli eventi reali legati agli esperimenti; questi ultimi hanno ricevuto critiche sul piano scientifico, metodologico e anche deontologico. Quello che offrono non è altro che l’illustrazione di alcune dinamiche degenerative del comportamento di gruppo, che sono del resto osservabili in svariate situazioni non necessariamente strutturate così rigidamente. Riemerge così il lato oscuro del gruppo, esposto alla manipolazione e alla deriva comportamentale. Lo scrittore Elias Canetti, in Massa e potere, ha tratteggiato alcune qualità della massa (di persone), nei termini della volontà di crescere numericamente, del valore assoluto assegnato all’eguaglianza, del movimento verso una meta condivisa, che rafforza la sensazione di eguaglianza. Un altro aspetto da lui evidenziato è il ritmo, che “è originariamente ritmo dei piedi” ed esprime sia la tensione a crescere (“se pestano il suolo più forte, suonano come se fossero di più”) sia il desiderio di eguaglianza (“al colmo della loro eccitazione… si sentono davvero una sola cosa”).
Questo ritorna in una delle scene del film L’onda, quando il docente invita il gruppo a marciare sempre più forte e all’unisono, per farsi sentire nell’aula al piano di sotto, fino a farne cadere l’intonaco. Se tutto ciò è noto da tempo, quali riflessioni meno scontate possiamo derivare da questo tipo di esperimenti sociali e dalla loro rappresentazione nei film? Rammentarli forse non è inutile, al fine di controbilanciare certi entusiasmi che proviamo anche in contesti meno drammatici per la fusione delle individualità in una squadra emozionalmente coesa intorno ai sentimenti e valori legati all’appartenenza.
Tenendo anche conto che le cronache attuali danno notizia di nuovi esperimenti, certo meno drammatici negli esiti, come quello così descritto in un articolo dal titolo “Emotional contagion through social networks”, uscito sulla rivista Proceedings of the National Academy of Sciences (Kramer, Guillory, Hancock, 2014): “Mostriamo, tramite un massiccio esperimento (N = 689.003) su Facebook, che gli stati emotivi possono essere trasferiti ad altri tramite il contagio emotivo, portando le persone a provare le stesse emozioni senza la loro consapevolezza.
Forniamo prove sperimentali che il contagio emotivo si verifica senza interazione diretta tra le persone (è sufficiente l’esposizione a un amico che esprime un’emozione) e in completa assenza di segnali non verbali”.
Riflettere sulle conseguenze del pensiero di gruppo
Bisogna allora riflettere in modo meno convenzionale sul concetto di “pensiero di gruppo”. La scoperta del fenomeno del groupthink è normalmente attribuita a Irving Janis (ne parla in un articolo dal titolo “Groupthink”, uscito sulla rivista Psychology today nel 1971); in realtà la primogenitura spetta a William H. Whyte Jr., l’autore del bestseller degli Anni 50 The organization man, che ne scrisse su Fortune addirittura nel 1952. La rivista americana ha reso disponibile sul suo sito il testo originario dell’articolo; e lo ha fatto nel 2012, sulla scia del Penn State child sex abuse scandal, una manifestazione impressionante, tra le tante in questo campo, di come il pensiero di gruppo possa celare, a lungo e agli occhi di tanti, situazioni perverse tutt’altro che circoscritte. Leggendo alcuni passi dell’articolo di Whyte, è impressionante rilevare come l’autore richiami temi che sono divenuti oggi di viva attualità. Infatti, non si limita a evocare la group dynamics, tema caldo dell’epoca grazie agli studi (e agli esperimenti) di Kurt Lewin, ma accenna alla social engineering e addirittura alla social physics.
Quest’ultimo termine è il titolo stesso del libro del 2014 (62 anni dopo!) di Alex Pentland, che propone una sorta di ‘nuova scienza’ rivolta a comprendere, orientare e valutare i comportamenti umani tramite i dati rilevati da sensori e altre tecnologie: l’idea di creare, tramite Big data, e financo strumenti di sociometrica che tracciano i flussi di idee tra le persone, non solo Data driven organization, ma anche Data driven society. Janis nel 1971 sviluppa il concetto di groupthink, senza citare Whyte, e lo riconduce a regole di condotta utilizzabili dai manager per migliorare i processi decisionali; mentre la critica di Whyte era più radicale.
Ora, non si tratta tanto del pericolo di cadere in nuove forme di autocrazia. Ma vale la pena di ragionare più in profondità sul rapporto tra individuo-persone e gruppo-organizzazione, accogliendo il monito espresso da Whyte con queste parole: “Non stiamo parlando di mero conformismo istintivo, è dopo tutto un fallimento perenne dell’umanità. Ciò di cui stiamo parlando è un conformismo razionalizzato, una filosofia aperta e articolata che sostiene che i valori di gruppo non sono solo opportuni, ma anche giusti e buoni”.
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