Esplorare le terre mobili del lavoro a distanza
L’analisi del libro, proposta dai contributi autorevoli precedenti, conferma che intorno all’esperienza protratta del lavoro a distanza le imprese sono state messe nelle condizioni di rendersi conto che crisi e complessità – di contesti e mercati – non potranno essere affrontate, e tanto meno risolte, ricorrendo a liturgie consolatorie. Queste sono solitamente a base di formule vaghe ed evocatorie, come “lavoro agile”, “new normal”, “inclusività”, “circolarità”, “tendenza polarizzante” e quell’esorcismo, così di moda e così vanesio quanto superfluo, dello “scope”. Non c’è nulla di più patetico di queste vague manageriali che si appropriano di parole o locuzioni – in genere straniere – per dare dignità a concetti arditamente gettati come ponti sul vuoto.
L’alternativa da considerare è molto più semplice e più secca: ci troviamo a un bivio in cui non è possibile scegliere l’una o l’altra delle strade classiche (innovare tutto o affidarsi alle strutture e agli strumenti che hanno funzionato fin qui). Bisogna abbracciare, almeno nella fase di emersione dall’emergenza, entrambe le via di uscita, convincendosi che non c’è ancora una soluzione unica a disposizione, in grado di garantire le sicurezze di un tempo. È questa ambivalenza che va esplorata, alla luce del terremoto con cui l’esplosione del digitale e delle piattaforme di connessione alla Rete, e il venir meno di confini un tempo così certi, muniti e rassicuranti, hanno messo in discussione una concessione classica del potere nelle organizzazioni e aperto la crisi inevitabile sugli strumenti tradizionali di gestione.
Le variabili multiple con cui si presentano le situazioni da affrontare non consentono soluzioni univoche né scelte una volta per sempre: tutto diventa molto temporaneo, spesso un tentativo. Servono approssimazioni, sensibilità articolate, capacità di ridisegnare schemi relazionali e processi che colgano le occasioni che si presentano via via. Esattamente quanto rifuggiva la liturgia consolidata dei princìpi organizzativi più accreditati.
Tutto questo comporta che le aziende hanno bisogno – e qui l’esperienza della pandemia e della dispersione territoriale del lavoro dovrebbe aver insegnato qualcosa – di poter contare su collaboratori e dipendenti che hanno acquisito competenze di flessibilità e di adattamento più larghe intorno all’asse del loro mestiere e della specializzazione funzionale.
Sono i saperi diversi dei dipendenti, che le condizioni di lavoro hanno permesso di accumulare, rimettendo a nuovo esperienze diversificate fatte in ambienti governati più dalle biografie di vita che dal solo curriculum, a poter far contare su risorse ridondanti rispetto a quelle tipizzate da strumenti di una razionalità quasi meccanica: il posto, la competenza di mestiere codificata una volta per tutte, una routine operativa e di carriera limitate entro i confini della funzione.
Verso scelte più ragionevoli
Ma perché tutto questo si possa realizzare è indispensabile che vengano riformulati gli ambiti di esercizio delle autonomie connesse all’aumento di responsabilità delegate anche alle periferie dei gruppi operativi o delle funzioni. Di conseguenza, viene rimodulato anche l’esercizio di capacità decisionali assunte, condivise e governate in uno scambio continuo all’interno di gruppi di progetto.
Definire ex ante assetti, consegnati alla regolamentazione una volta per tutte, immaginando di trarre nuovi princìpi da una condizione che sembra pretendere la fine dell’emergenza, piuttosto che la sua metabolizzazione completa, rischia di riproporre la vecchia panacea della razionalità strumentale, tanto tranquillizzante quanto inutile nei fatti. Saggezza e lungimiranza vorrebbero che, scottati dalla fatica di trovare un antidoto alle antiche sicurezze così inutilizzabili nella crisi, si riuscisse a optare per una versione più ragionevole delle scelte da adottare. Inoltre bisogna riflettere sul versante del senso e del significato che la complessità dei contesti ci costringe a relativizzare, rispetto all’abitudine di avere tutto sotto controllo.
Per venire a capo delle crisi ricorrenti serve dunque una buona dose di coraggio capace di esplorare i confini slabbrati delle nuove strutture per dare dignità a chi sulle terre mobili delle nuove connessioni sperimenta, prova, sbaglia, si corregge e, in tutto questo, non smette di sentirsi appartenente. Forse molto più appartenente delle felici epoche in cui comando e controllo regolavano tutto, anche la sua infelicità.
Pier Luigi Celli è nato a Verucchio (Rimini) l’8 luglio 1942. Sposato con Marina, ha due figli. Laureatosi in Sociologia all’Università di Trento, ha maturato significative esperienze come Responsabile della Gestione, Organizzazione e Formazione delle Risorse Umane in grandi gruppi, quali Eni, Rai, Omnitel, Olivetti ed Enel. Il bagaglio manageriale acquisito nella gestione di grandi aziende con business così complessi e diversificati, gli ha permesso nel 1998 di tornare in Rai come Direttore Generale.
Dopo aver ricoperto ruoli fondamentali nello startup di nuove attività per la telefonia mobile – Wind e Omnitel – è stato, per un breve periodo, alla guida di Ipse 2000, società di telefonia per l’Umts. Dal 2002 ad aprile 2005 ha lavorato in Unicredito Italiano, come Responsabile della Direzione Corporate Identity, con la missione di dare un’identità a un gruppo che negli ultimi anni ha aggregato sette realtà in Italia e cinque all’estero.
Da maggio 2005 a luglio 2013 ha lavorato all’Università Luiss Guido Carli come Direttore Generale e dal 2013 a giugno 2014 in Unipol come Senior Advisor Corporate Identity, Comunicazione
e Relazioni Istituzionali. Ha ricoperto la carica di Presidente dell’Enit da maggio 2012 a giugno 2014 e dal 2014 al 2016 ha ricoperto in Poste Italiane il ruolo di Senior Advisor dell’Amministratore Delegato.
Oggi è Presidente di Sensemakers, società che offre servizi di consulenza e prodotti in ambito digital basati su Big data e Analytics.
competenze, Smart working, flessibilità, adattamento