Essere e management, cosa ci resta del pensiero di Severino
Il filosofo Emanuele Severino ha scritto di una cosa sola per tutta la sua vita: dell’essere. Che è, e non può non essere. Ci ha lasciato il 17 gennaio 2020, a pochi giorni dal compimento dei suoi 91 anni. La sua traccia, però, resta. Severino è stato un gigante del pensiero in uno scenario popolato in prevalenza da nani e accademici. Un uomo gentile, rigoroso e innamorato della verità.
Fin dagli Anni 70, ha dedicato una parte significativa della sua attività intellettuale alla divulgazione, producendo scritti leggibili anche da un pubblico non specialistico. Una rarità in Italia. Questo mi autorizza a percorrere la stessa strada e cercare di illustrare in modo semplice, persino brutale, alcune sue idee essenziali.
I manager come funzionari della follia dell’Occidente
La prima idea è questa: se l’essere è e non può non essere, allora non è pensabile il divenire delle cose. Sì, perché il divenire significa precisamente che le cose ora sono e dopo un attimo non sono più. Ammettere il divenire, per vertiginoso che suoni, significa ammettere il non essere.
In questa ammissione del passaggio dall’essere al non essere, che noi chiamiamo appunto “il divenire delle cose”, consiste, per Severino, l’inizio della grande follia dell’Occidente. Follia che continua con il tentativo di controllare, di dominare questo divenire che ci inquieta e ci minaccia.
La storia occidentale trova così il suo compimento nell’epoca della tecnica che per Severino è appunto la forma ultima e suprema del tentativo dell’Occidente di dominare il divenire. Tutte le altre forme del dominio (il sapere filosofico, la scienza moderna, la politica, l’economia) non sono che stadi di questo millenario cammino di follia. Un cammino che il filosofo ha studiato e commentato per 70 anni e di cui ha descritto gli snodi in modo geniale e visionario.
L’Occidente, nella sua narrazione, ha perseguito tenacemente un programma di dominio sulle cose in fondo vano, destinato cioè a risultare nel nulla. Ma di un nulla di indubbia potenza. Severino parla appunto di “potenza dell’errare”. E i manager? Beh, in questa analisi risultano essere in qualche modo i volenterosi funzionari della follia dell’Occidente nelle sue fasi tecniche ed economiche.
Fare i conti con la scomoda verità
La verità dell’essere ha dunque due caratteristiche che subito si impongono: è scomoda ed è illuminante. Scomoda perché costringe la follia a guardarsi impietosamente allo specchio. Ed è illuminante, perché consente di vedere le cose in una luce del tutto diversa, più fondamentale.
Nei meccanismi autoreferenziali e convenzionali del mondo in cui i manager si trovano spesso a operare c’è pochissimo spazio per la ricerca della verità.
A ciascuno di noi viene consegnata da Severino questa domanda: di quanta verità puoi e vuoi essere portatore? Chi ha conosciuto il filosofo sa che fin dall’inizio della sua carriera, forse della sua vita, la sua risposta è stata chiara: la verità si impone. E ci impone il massimo rigore.
Parlare con lui era un esercizio di chiarezza e di onestà intellettuale cui non siamo più abituati. E l’obiettivo non era vincere una disputa verbale, ma riuscire a guardare insieme un pezzetto di verità. Severino parlava di “gioia” per descrivere ciò che succede quando la verità ci consente di superare le nostre contraddizioni. E parlare con lui portava davvero gioia.
Il rispetto dovuto agli “eterni”
La seconda idea cui farò cenno è questa: tutte le cose che sono, in quanto sono, non possono non essere, e dunque sono degli “eterni”. Che certo “appaiono e scompaiono”, ma non cessano mai di essere. Immaginiamocelo così: ogni istante che diventa eterno, e viene seguito da un altro istante eterno. Non c’è trasformazione di uno nell’altro. La nostra illusione del tempo sarebbe in altre parole una sequenza di fotogrammi in sé eterni.
Quando si parlava con Severino si restava sempre stupiti di tre cose: della sua assoluta attenzione nei confronti dell’interlocutore; del suo profondo rispetto per le persone (a volte ironico, ma sempre profondo!); e della sua prodigiosa memoria.
A pensarci è chiaro: se ogni istante è eterno, sei tutto nell’istante, con massima attenzione. E se ogni tuo interlocutore è parte dell’essere gli mostri necessariamente assoluto rispetto. Così pure osservi ogni cosa e ogni dettaglio che ti cade sotto gli occhi: come una manifestazione dell’essere. Così credo si spieghino la sua attenzione, il suo rispetto e la sua memoria.
I libri teoretici di Severino sono di difficile, direi ostica, lettura. Decisi di affrontare queste difficoltà dopo averlo incontrato a cena tre anni fa. Ricordo di aver pensato proprio questo: “Non posso non leggere i libri di un uomo che si comporta così”.
Ho provato qualcosa di analogo nel leggere le vite antiche di San Francesco, quelle scritte da chi lo aveva conosciuto di persona. I biografi ci parlano di una persona in grado di fermarsi a salutare i fiori nei campi e ringraziarli per la loro bellezza o di chiedere agli uccellini con cortesia un po’ di silenzio per poter finire la predica, salvo poi benedirli per averglielo concesso. In Severino e nella sua asciutta signorilità d’altri tempi non c’era peraltro neppure un cenno di sentimentalismo. O di desiderio di santità!
Se pensiamo alla nostra esperienza quotidiana nel mondo del lavoro o anche solo alle normali circostanze di vita di ogni giorno, è misurabile la distanza che ci separa da una pratica di questo genere. Una pratica in qualche modo ascetica.
Tra le cose che il pensiero di Severino può suggerire a chi fa il mestiere di manager ne ho scelto tre. La prima è l’equiparazione della ricerca del potere sulle cose e sulle persone alla follia. La seconda è che per capire qualsiasi cosa è necessario coglierne gli aspetti fondanti e cercare di seguirne il dispiegarsi in modo ampio, quasi panoramico. E la terza è che la ricerca della verità porta con sé la necessità della fedeltà: implica cioè rischio e testimonianza veri e personali. Tutte cose, diciamocelo, impopolari o quanto meno non convenzionali.
Nel potere la follia di considerare le persone come mezzi
Per chi, come me, ha trascorso 20 anni in grandi aziende, il discorso sul potere è pane quotidiano. Intendo qui il potere nel senso del controllo, del dominio, della potenza. Ho visto fare cose folli, appunto, per raggiungerlo, aumentarlo, difenderlo. E poi?
Posso dire in tutta franchezza che mai ho visto il potere in quanto tale generare qualcosa di bello o innovativo. Ciò che di meglio avviene nelle aziende, e credo il discorso si possa allargare a ogni ambito della vita umana, avviene nonostante il potere. Questo tipo di potere ha senso, ha un tornaconto, solo in uno scenario di utilità, di strumentalità in cui le cose e le persone vengono sviliti a mezzi.
La riflessione di Severino ha illuminato questo nesso oltre 50 anni fa. Quando oggi parliamo di gestione delle risorse umane, di organizzazione ottimale, di efficienza produttiva, di “massimizzazione”, ci muoviamo, mi sembra, in un orizzonte completamente assimilabile alla follia severiniana. La società tecnologica di oggi somiglia molto, purtroppo, al mondo della “potenza della tecnica” che il filosofo ha preconizzato decenni fa.
Sarebbe molto diverso considerare il potere come possibilità di capacitazione individuale e collettiva. Potere dunque inteso come capacità di creare uno spazio in cui le cose si manifestino spontaneamente, nella loro autonoma necessità. Che siano gli eterni di Severino o, per esempio, i talenti delle persone. Questo potere merita forse di essere compreso e difeso, nelle circostanze aziendali e personali. È il power che sta alle radici dell’empowerment e non del total control. Il potere conforme a verità, si potrebbe dire con lessico severiniano, è un potere che lascia essere, invece di cercare di dominare.
A ognuno la riflessione sulla realtà personale
Un altro aspetto essenziale della riflessione di Severino è quello per cui comprendere significa provare a cogliere i nessi fondanti, essenziali delle cose. Vederle cioè nella loro intima costituzione. Anche in questo caso la comprensione (si noti che in italiano la parola stessa rimanda invece al “prendere” e “afferrare”) è piuttosto un lasciar venire alla luce. Un atteggiamento, intendiamoci, tutt’altro che passivo. Un atteggiamento che richiede grande sforzo e disciplina.
Severino colpiva l’interlocutore con la sua pacatezza. Mai un tono brusco, uno stress polemico. Parlare con lui era davvero fare spazio alle cose. Se penso all’arroganza che ogni manager subisce o, peggio ancora, esercita nel descrivere le cose come gli farebbe comodo che fossero…
Spesso l’attitudine collettiva prevalente nel mondo del lavoro è quella di convincersi e convincere che le cose stiano in un determinato modo. Che le cose siano quello che non sono. Un altro modo di descrivere la follia dell’Occidente. Una conseguenza della comprensione dei nessi fondanti è la possibilità, che a quel punto si apre, di seguirne e anticiparne gli sviluppi, lo ‘svolgersi’. Molte delle analisi prospettiche di Severino sulle società occidentali si sono rivelate, a distanza di decenni, esatte fino a sembrare visionarie.
Dal suo punto di vista, la semplice spiegazione è che la necessità stessa dell’essere si poteva manifestare solo in quel modo. Una necessità, quella dell’essere, che non è negoziabile. A ciascuno di noi spetta riflettere su quanto spazio ci sia nella nostra realtà personale e lavorativa per una prospettiva di questo tipo.
La scelta tra fedeltà e testimonianza
L’ultima questione che intendo porre è: dopo aver provato a fare spazio alle cose con un potere liberante e dopo aver provato a comprendere il fondamento delle cose stesse, che tipo di atteggiamento potrò tenere? Uno solo, verrebbe da dire. Quello della fedeltà, della testimonianza.
L’ultimo libro teoretico pubblicato da Severino si intitola appunto Testimoniando il destino (Adelphi, 2019). In questo libro si legge: “Nella testimonianza la Follia è rifiutata”. Il messaggio che traspare è che sembra quasi inevitabile arrivare a un punto in cui diventa necessario per ciascuno scegliere. Scegliere quale fedeltà e quale testimonianza dare nella propria quotidianità, anche sulle cose più semplici.
Il brillante accademico scelse nel 1969 di farsi condannare dal Sant’Uffizio e di perdere la cattedra universitaria conseguita ancora giovanissimo all’Università Cattolica di Milano. I successi accademici ed editoriali che ne seguirono non cancellano la questione. Viviamo in giorni e circostanze in cui forse, come cantano Mina e Ivano Fossati nel loro ultimo disco, “c’è più bisogno di coraggio che prudenza”.
In un mondo manageriale dove si programmano le carriere a prescindere dalle cose e si orchestrano apparenti risultati con stratagemmi di ogni genere, direi proprio che il vecchio filosofo ci interroga profondamente. Rivedo, mentre scrivo, i suoi occhi vivaci e pieni e il suo sorriso appena accennato.
A ognuno la scelta di coltivare il pensiero
Ho avuto la fortuna di ascoltare Severino mentre discuteva con un premio Nobel per la Fisica, Gerard ‘t Hooft, sulla libertà e poi, in una diversa circostanza, con Sir Roger Penrose (uno dei maestri di Stephen Hawking) sull’Intelligenza Artificiale.
Ciò che più mi ha colpito in tutte e due le occasioni è stata la sua capacità di portarli entrambi sul piano del pensiero. Anche loro malgrado, Severino riuscì a farli uscire dai limiti dalla loro “disciplina” e dalle rispettive questioni tecniche, per provare ragionare con loro. Non fu importante tanto l’esito delle discussioni, pur bellissime, quanto proprio questo movimento. Non siamo abituati a vedere il pensiero. Non siamo abituati ad andare docilmente lì dove il pensiero ci può portare.
A mio giudizio il lascito più grande di Severino è proprio questo: aver tenuto aperta la possibilità del pensiero. Un pensiero non nel senso della specifica cosa pensata. Ma proprio di un campo tenuto ostinatamente libero. Dentro cui si manifesta, a volte e quando vuole, una verità.
Nel suo ultimo libro si legge: “Non basta possedere un campo: bisogna coltivarlo”. Riferendosi a quella che descriveva come la “pianura della verità”, Severino diceva: “Quella pianura (…) non può esser posseduta da alcuno. Essa è anzi l’essenza profonda per la quale si è qualcuno”. A noi la possibilità e la sfida di coltivare il pensiero e quindi, forse, di “diventare qualcuno”.
Fabrizio D’Angelo è nato a Napoli nel 1972. Cresciuto a Milano, dove ha compiuto studi classici, si è poi laureato in Filosofia a Pisa, studiando presso la Scuola Normale Superiore. La sua carriera manageriale è iniziata in Germania nel 1997, presso la Verlagsgruppe Milchstrasse di Amburgo. Dopo tre anni in De Agostini, è diventato Direttore delle Attività Internazionali di Arnoldo Mondadori per il settore dei periodici.
Nel 2008 si è trasferito di nuovo in Germania, presso il gruppo Burda, dove è restato, in qualità di CEO di Burda International, fino al 2016.
Ha fondato e dirige dal 2009 una società di consulenza, la INTI Consulting. Si occupa prevalentemente di progetti di innovazione sociale e di sviluppo di business digitale.
ruolo del manager, Emanuele Severino, essere e management, grande follia dell’Occidente, fedeltà e testimonianza