Formazione continua come antidoto all’automazione
Solo il 60% delle imprese italiane forma i propri dipendenti. E un posto due è a rischio automazione.
Il mondo del lavoro sta cambiando. Già prima della pandemia, i mutamenti delle strutture produttive e la diffusione delle nuove tecnologie stavano disegnando traiettorie sempre più veloci, complesse e imprevedibili rispetto al passato. Si cambia non solo posto di lavoro, ma anche tipo di lavoro. I percorsi professionali diventano più discontinui e precari e le competenze invecchiano rapidamente. Come deve cambiare il modello di formazione continua? Professori, manager d’azienda ed esperti se lo sono chiesto alla Settimana del Lavoro, la rassegna biennale organizzata dall’Istituto per la Memoria e la Cultura del Lavoro, dell’Impresa e dei Diritti Sociali (Ismel), con il sostegno di Fondazione Crt e Polo del ‘900.
“I cambiamenti in atto stanno mettendo in crisi già da tempo il modello standard della formazione continua, che è il modello dell’adattamento”, ha spiegato Gian Carlo Cerruti, già Professore di Sociologia dei processi economici e del lavoro e membro del comitato scientifico di Ismel. “Adattare le competenze dei lavoratori alle necessità presenti del sistema economico e produttivo può apparire ragionevole: servono competenze adatte per far lavorare in modo efficiente il sistema. Questa concezione, però, è stata spazzata via dalla complessità e dall’imprevedibilità del cambiamento”. Secondo le previsioni dell’Ocse, un lavoro su due in Italia potrebbe essere almeno parzialmente automatizzato. Il 15% dei posti di lavoro è esposto a un alto rischio di automazione, il 25% a un rischio significativo: ciò crea una forte pressione sul sistema della formazione perché molte persone dovranno essere riqualificate.
Bassi livelli di competenze e pochi corsi nelle PMI
“I mega trend che stanno cambiando il mondo del lavoro stanno modificando anche i fabbisogni di competenze necessarie. È necessario rendere la formazione italiana più accessibile e inclusiva, allinearla ai fabbisogni di sviluppo e standardizzarne la qualità”, è la lettura di Michele Tuccio, Economista della direzione Occupazione, lavoro e affari sociali dell’Ocse. Investire in formazione è particolarmente urgente nel nostro Paese: il 38% degli italiani ha bassi livelli di competenze in alfabetizzazione o matematica, una percentuale maggiore di tutti Paesi Ocse a eccezione di Turchia e Cile. Se l’accesso alla formazione è migliorato notevolmente negli ultimi 10 anni – la partecipazione individuale è aumentata del 130% dal 2007 al 2016, la quota di imprese che la offrono è cresciuta del 90% dal 2005 al 2015 – è vero anche che i livelli di partenza erano molto bassi.
Nel 2015 in Italia appena un adulto su 5 si è formato. Solamente il 60% delle imprese italiane fornisce formazione continua, contro una media europea del 76%. Le imprese più piccole, con meno di 50 dipendenti, sono quelle che hanno meno probabilità di offrire training ai propri dipendenti: lo fa il 57% delle piccole, l’82% delle medie, il 93% delle grandi. Il divario di offerta formativa tra piccole e grandi imprese è tra i più alti d’Europa: si attesta attorno ai 36 punti percentuali, un dato particolarmente importante se si considera che il tessuto produttivo italiano è fatto in gran parte di aziende di dimensioni ridotte, con le grandi che rappresentano solo 0,08% del totale.
Disallineamento tra programmi educativi e skill richieste
Preoccupa anche la percezione che gli italiani hanno della formazione e il disallineamento tra le materie dei corsi e le priorità delle aziende in termini di aree di sviluppo. Quasi sette italiani su 10 non si formano e non si vogliono formare, un rifiuto su cui pesa la convinzione che il modello formativo attuale non abbia un vero impatto su mondo del lavoro. In effetti, un terzo dei corsi oggi ha a oggetto materie di formazione obbligatoria come salute e sicurezza, anche se con differenze regionali significative: nel Lazio sono il 15%, in Friuli Venezia Giulia rappresentano quasi la metà di tutti i corsi. Incrociando l’elenco delle competenze più carenti e ricercate in Italia (al primo posto ci sono informatica ed elettronica) con i programmi di formazione attualmente finanziati, è evidente il disallineamento.
Ciò ha un forte impatto sulla percezione da parte dei fruitori, parametro rispetto al quale l’Italia è di nuovo nella parte bassa della classifica: solamente il 40% dei partecipanti a corsi di formazione li trova molto utili, contro la media Ocse del 52%. Anche la reale qualità della formazione è difficile da monitorare, visto che nel nostro Paese non esiste un sistema nazionale della qualità come altrove: solo l’1% degli attuali organismi di formazione sono organismi formali. Le università rappresentano appena lo 0,5 di tutta la formazione professionale erogata, mentre l’89% proviene da società di consulenza, enti di formazione e imprese, che hanno un’offerta variegata, ma non controllata.
Occorrono specializzazione e complementarietà
“Ci siamo illusi per anni che il Paese avesse un’alta qualità di Risorse Umane e che si potesse avere una crescita basata sull’imitazione continua e sull’intuizione. L’illusione si è infranta negli ultimi anni di fronte a un dato evidente, ma quasi sottaciuto: da 25 anni l’Italia è il Paese che cresce di meno in Europa, da quando il mondo ha iniziato a fare i conti con la globalizzazione e con l’innovazione tecnologica”, ha ricordato Patrizio Bianchi, Professore ordinario di Economia e politica industriale all’Università di Ferrara. Secondo Bianchi, l’attuale situazione è la conseguenza di quella frattura tra territori manifestatasi già all’inizio del nuovo secolo, tra regioni industrializzate che hanno dovuto costruire strutture e formazione interna necessaria per esportare le loro produzioni e altre che, limitandosi a beni di consumo, non hanno avvertito la stessa spinta, ma hanno iniziato a subire la concorrenza estera.
La divaricazione maggiore si è avuta nel 2012, quando tutti i Paesi hanno cominciato a lavorare per uscire dalla prima grande crisi ed è avvenuto il salto tecnologico che va sotto il nome di 4.0. “Nel ‘900 le competenze richieste erano lineari, frammentate e gerarchiche, erano la proiezione del ciclo fordista. Oggi la prima competenza è mettere insieme tutti i pezzi e avere una visione complessiva di tutti i segmenti di una catena sparsa per il mondo. L’efficienza non è la specializzazione, ma è la specializzazione unita alla complementarietà”, ha spiegato il professore. “La formazione continua sulla singola specializzazione non è più sufficiente, bisogna dare alle persone capacità di visione complessiva sull’intero ciclo produttivo anche se non è più sotto i loro occhi. La formazione dev’essere parte di un processo di crescita complessiva di un settore e di un territorio”.
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Giornalista professionista dal 2018, da 10 anni collabora con testate locali e nazionali, tra carta stampata, online e tivù. Ha scritto per il Giornale di Sicilia e la tivù locale Tgs, per Mediaset, CorCom – Corriere delle Comunicazioni e La Repubblica. Da marzo 2019 collabora con la casa editrice ESTE.
Negli anni si è occupata di cronaca, cultura, economia, digitale e innovazione. Nata a Palermo, è laureata in Giurisprudenza. Ha frequentato il Master in Giornalismo politico-economico e informazione multimediale alla Business School de Il Sole 24 Ore e la Scuola superiore di Giornalismo “Massimo Baldini” all’Università Luiss Guido Carli.
Ocse, formazione continua, Settimana del lavoro, Ismel