Generazione Smart working
In un recente processo di selezione abbiamo ricevuto in pochi giorni ben 499 candidature. Abbiamo poi inviato a tutti i candidati una mail in cui si precisava che la sede di lavoro sarebbe stata a Milano e che il lavoro si sarebbe svolto in presenza. Chiedevamo di rispondere alla mail solo se interessati a questa combinazione logistica, per poi fissare dei colloqui. Ebbene, hanno risposto con interesse circa 20 persone. Un selezionatore ci aveva messo in guardia: “Ormai se non date lo Smart working siete fuori mercato”. Sicuramente è vero per il mercato dei sociopatici. La gran parte di chi si è candidato alla posizione è giovane, under 35: mi viene da chiedermi come possa una persona alle prime esperienze in azienda pensare di imparare a lavorare senza stare in ufficio, soprattutto nel settore dei servizi dove l’attività umana è al centro di tutti i processi.
Ciò che mi preoccupa di più è questa chiusura delle persone su se stesse, in un’età in cui la socialità non dovrebbe di certo essere respinta. Il rifiuto di confronto diretto con l’altro, quasi un’allergia al contatto umano. La ritrosia con cui tante persone affrontano il fatto di dover lavorare in un contesto sociale (ma va?) mi spaventa molto perché va contro la natura umana e la mina alla sua base, violentandola. Avere rapporti con gli altri talvolta può non essere facile, ma la soluzione non è certo quella di chiudersi in casa. Questa si chiama ‘sociopatia’ ed è una patologia da curare. Mentre oggi pare legittimo allontanarsi subito dalle cose che ci destabilizzano, anziché affrontarle. Si tende facilmente a etichettare persone e contesti come ‘tossici’, alla prima occasione, al primo sgarbo, al primo trasalimento interiore. Siamo davvero diventati fragili come carta velina? Oppure rifuggiamo tutto ciò che non ci riesce al primo tentativo?
Se tra i detrattori della mia posizione ci sono coloro che rivendicano la libertà di andare a portare il figlio a scuola o all’attività pomeridiana, posso dire loro che se si ha tempo per fare tutte queste cose in Smart working significa che l’azienda non vi dà abbastanza lavoro o che voi non lavorate abbastanza. Evidentemente, dove vige lo Smart working c’è anche la consapevolezza dell’azienda di avere alle proprie dipendenze delle persone che performano al 70% e sono consapevoli di pagarle anche per il restante 30%. Per pascolare, o prendersi il venerdì pomeriggio per partire per il weekend, “tanto sono in smart”. Evidentemente il budget dell’azienda lo permette.
Voglio essere netta e poco ‘polite’ in queste righe perché quello che osservo intorno a me, tra persone che mi sono vicine e che lavorano in Smart working, è una decisa rilassatezza nei confronti di un lavoro che prima era vissuto come impegnativo e ora è la parentesi tra il ritiro a scuola dei figli e l’imbianchino da gestire a casa. Sono veramente tanti i genitori che vedo sostare in tutta calma fuori da scuola, in attesa dell’uscita dei figli o dopo averli salutati all’entrata del mattino. Tanti di loro dicono “tanto sono in Smart” e so per certo che il tempo che guadagnano non deriva solo dal mancato spostamento casa-lavoro (talvolta veramente poco impegnativo). C’è poi chi fa call direttamente dal cortile della scuola, accogliendo il figlio con il dito che dice ‘silenzio’ e poi indica le cuffie nelle orecchie. Per me sarebbe impossibile, ma probabilmente il problema sono io che sono poco multitasking.
Ma ritornando al nostro annuncio: quel che più mi spaventa, dicevo, è la tendenza, soprattutto dei giovani, a ritrarsi dalla socializzazione. Un fenomeno pericoloso, ma ormai diffuso in tanti ambiti del nostro vivere: dal lavoro alla costruzione di relazioni che ormai nascono e si sviluppano prevalentemente online, per mezzo di uno strumento che promette di connettere, ma in realtà spinge all’isolamento, perché spaccia uno scambio di bit per una relazione strutturata e reale. Che crea una situazione di iperconnessione che ci isola sempre di più e ci lega a doppio filo agli strumenti anziché alle persone. Il lavoro, e questo è vero certamente nel settore dei servizi, è relazione, creatività, ascolto, confronto, scontro, negoziazione. Difficile portare avanti in maniera efficace tutte queste azioni mediate da uno schermo.
Anche parlarsi al telefono è diventata una cosa per pochi nostalgici. Un’azione reazionaria che genera ansia perché ancora fondata su un’interazione sincrona, che mette alla prova. Proprio la scorsa settimana inveivo tra me e me perché potevo dialogare con un cliente solo tramite Google Meet. Il ‘chiamami quando preferisci, mi trovi tutto il pomeriggio’ ha ormai un che di minaccioso. La richiesta di avere il suo numero di cellulare è stata palesemente ignorata e in tutto questo la scadenza che ci eravamo dati è slittata di 24 ore. Alla faccia dell’immediatezza degli strumenti tecnologici. Online o offline, chi non sa lavorare continua a non saper lavorare. Ma forse online un po’ di più…
relazioni, Smart working, spazio di lavoro