Gestire la fatica organizzativa nell’era post Covid
La fatica, quella dell’uomo, è un tema poco studiato, sebbene oggetto di frequenti discussioni, e considerato fuori moda, quasi dimenticato. Si tratta di un argomento antico che trovò spazio e attenzione, mai eccessivi, nei secoli passati. Per esempio, nelle pagine bibliche dell’Ecclesiaste, che così recitano: “Io ho considerato anche tutta la fatica e tutto l’impegno nell’agire umano: è solo invidia dell’uno per l’altro. Anche questo è vuoto e fame di vento. Lo stupido incrocia le braccia e si consuma l’esistenza. Meglio però una mano piena ma in serenità che due colme ma con fatica e fame di vento”.
Oppure nell’espressione pàthei màthos, tratta dalla tragedia greca Agamennone di Eschilo, dove si sottolinea che la conoscenza si forma attraverso la sofferenza, un aspetto della fatica. O ancora nei dipinti di Jean-François Millet (1814-1875), di Guido Tavagnacco (1920-1990) e di Giuseppe Canella (1788-1847) e per finire nella scultura ellenistica dell’Atlante Farnese conservata al Museo Archeologico Nazionale di Napoli.
La fatica è percepita ed espressa secondo modalità uniche
Prima di affrontare il tema della fatica organizzativa, vorremmo fare tesoro di alcuni contributi e spunti tratti dalla lettura del libro La Fatica (1891) del medico e fisiologo Angelo Mosso, suggeritoci dal caro e compianto epatologo Nicola Dioguardi. Angelo Mosso fu Docente di Fisiologia all’Università di Torino e discepolo di Ugo Kronecker, Professore di Fisiologia presso l’Università di Berna. Incamminandoci per una strada del tutto lontana dai nostri percorsi di studio e di lavoro, cercheremo di avere come compagni di viaggio modestia e prudenza, aiutati anche dal fatto che la scrittura mossiana è di facile e immediata comprensione, caratteristica delle persone di profonda competenza e vasta cultura.
Secondo Mosso la fatica è connaturata al lavoro, fisico o intellettuale che sia, e più in generale al vivere. Al riguardo, pensiamo non ci sia persona al mondo che, nel corso della propria esistenza, non abbia mai esclamato: “Sono affaticato”. Alla luce poi dei drammatici avvenimenti legati alla pandemia di Covid-19 non possiamo non tener conto di una faticosità aggiuntiva, un mix di preoccupazioni, del cambiamento dei ritmi della vita lavorativa, personale, familiare, dell’incessante bombardamento di notizie spesso non rassicuranti e del peso di tante situazioni dolorose. Sicuramente questa ulteriore fatica ha reso molte persone più fragili sotto il profilo della tenuta psicologica: si tratta di un aspetto da non dimenticare, cui sarà necessario porre rimedio al fine di evitare che il ritmo della vita che ha subìto comprensibilmente dei rallentamenti non si trasformi in un pericoloso letargo nei pensieri e nei comportamenti.
La fatica è un vissuto ad personam, una situazione percepita ed espressa secondo modalità e tonalità uniche ed esclusive: ognuno di noi ha la propria fatica. È anche difficile, forse impossibile, misurarla secondo parametri rigorosi e puntuali, come avviene in altre attività umane. Come ricorda inoltre Mosso, “la fatica, che pure dobbiamo considerare come un avvelenamento, può alterare la costituzione del sangue e le condizioni della vita, senza che l’avvertiamo o dando appena qualche segno oscuro di esaurimento”. Essa però non porta sempre con sé un quid di negatività. “Cogenda mens ut incipiat”, così scriveva Seneca (Epistulae morales ad Lucilium) sottolineando come sia necessario forzare la mente perché inizi a lavorare. In certe situazioni – come nel caso di poeti, artisti e compositori – “la macchina, funzionando, non si deprime e non scema la sua forza, ma diviene anzi più atta al lavoro” (Mosso, 2001). Ci sono infine anche degli antidoti per superare la fatica. Oltre al riposo, che è la risposta naturale alla fatica stessa, Mosso sottolinea l’importanza della varietà dei contenuti e delle modalità in cui si concretizzano le attività lavorative, in particolare quelle di natura intellettuale, come evidenziano anche alcune esperienze testimoniate dallo stesso autore.
Che cos’è la fatica organizzativa
Vorremmo innanzitutto fare una doverosa premessa. Affrontando un tema nuovo, l’obiettivo che ci prefiggiamo è di suggerire alcuni iniziali spunti di riflessione, che dovranno essere poi di stimolo per futuri e rigorosi approfondimenti e verifiche empiriche. Ci assumiamo pertanto la responsabilità di fare da apripista, augurandoci che le nostre parole possano risultare utili e interessanti, consci in ogni caso di essere di fronte a un tema ricco di molte sfaccettature, frutto dei contributi offerti negli anni da varie discipline. Siamo pure consapevoli del fatto di essere i primi destinatari di questo scritto: un’occasione privilegiata di presa di coscienza di fronte a un tema affascinante, molto coinvolgente e nel contempo ‘scivoloso’.
La fatica organizzativa fa riferimento a una determinata categoria di realtà sociali fondate sulla divisione del lavoro e sulle competenze, quali le imprese economiche, la Pubblica amministrazione, le associazioni culturali, politiche, religiose, ecc. In questo caso faremo riferimento in modo specifico alle organizzazioni aziendali, nelle quali la fatica è ovviamente circoscritta alle persone che operano all’interno della stessa. Essa, pertanto, è legata non solo al lavoro in sé, individuale o collettivo che sia, quanto piuttosto al lavoro svolto in determinati ambienti, situazioni, circostanze, periodi temporali: potremmo parlare così di una specie di “lavoro aumentato”, mutuando questa espressione dalla cosiddetta “realtà aumentata”, in cui alla normale realtà percepita dai sensi si sovrappongono altre informazioni artificiali e virtuali.
Di fatto, la fatica organizzativa è la conseguenza del funzionamento complessivo dell’organizzazione aziendale, dove le varie attività lavorative interagiscono con altri elementi e aspetti collaterali. A ciò si deve aggiungere che il tempo trascorso in Smart working e in video chat, divenuti importanti e imprescindibili strumenti di lavoro soprattutto in una situazione di lockdown, provoca un supplemento di stanchezza dovuto al fatto che trascorrere molte ore dinnanzi a uno schermo aumenta il consumo di energie mentali e fisiche.
Un recente studio del Laboratorio di interazione umana virtuale presso la Stanford University ha messo in evidenza che lo schermo crea un contesto relazionale artificioso, genera ulteriore stress e impoverisce lo scambio interpersonale. In un futuro, dove si vedrà sicuramente uno stabile e costante utilizzo dello Smart working, sarà indispensabile evitare che il contesto lavorativo non solo si impoverisca o crei diseguaglianze, ma anche che non incoraggi il nascere e il perdurare di nuove abitudini che possono influire in modo non del tutto positivo sulle dinamiche relazionali e sociali: è un costo che non ci si può permettere soprattutto nei confronti delle giovani generazioni.
Presidente di Boniardi&Partners
Smart working, benessere organizzativo, Covid, fatica organizzativa