Gig economy, meno far west e più regole

In Italia ci ha pensato la procura di Milano. Oltre 60mila lavoratori di quattro società del delivery – Uber Eats, Glovo-Foodinho, JustEat e Deliveroo – dovranno essere assunti dalle aziende come lavoratori coordinati e continuativi. La procura ha aperto un’indagine fiscale su Uber Eats, filiale italiana del colosso americano già finita in amministrazione giudiziaria per caporalato sui rider, “per verificare se sia configurabile una stabile organizzazione occulta” dal punto di vista fiscale. Alle società del delivery sono state contestate ammende per oltre 733 milioni di euro per profili inerenti la sicurezza dei fattorini.

È solo l’ultimo intervento in ordine di tempo, che segue di pochi giorni una sentenza pronunciata nel Regno Unito e destinata a produrre effetti sull’intero mercato dei contratti cosiddetti ‘a zero ore’. La Corte Suprema britannica, chiudendo una battaglia legale durata sei anni, ha sancito che gli autisti di Uber non sono lavoratori autonomi, come argomentava la società di ride sharing, ma lavoratori subordinati a tutti gli effetti e come tali hanno diritto al rispetto del salario minimo, alle ferie pagate e a tutta una serie di altri benefit.

La decisione adottata nel Regno Unito – che va nella direzione opposta rispetto all’esito del referendum celebrato a novembre 2020 in California – ha riacceso i riflettori sulle condizioni di lavoro di driver e rider e sull’evidente divario tra un mercato del lavoro (iper)regolamentato e il far west della Gig economy. Il caso di Uber è solo uno dei tanti che affollano le corti inglesi e che coinvolgono più di una compagnia di delivery che ha riempito le strade delle città di mezzo mondo durante la pandemia. Apprezzati e considerati da tutti come essenziali durante il lockdown, i lavoratori della Gig economy si muovono su un terreno economicamente precario e legislativamente quasi inesistente.

Lo dimostra il fatto che la compagnia californiana resti convinta di poter applicare la decisione soltanto a un piccolo gruppo di lavoratori: in un messaggio inviato ai driver dopo la sentenza, Jamie Heywood, General Manager for Northern and Eastern Europe di Uber, ha tenuto a precisare che come risultato della decisione solo un numero ridotto di persone già in servizio come autisti nel 2016 può essere classificato come dipendente, negando di fatto che sia stato affermato un principio chiaro: la subordinazione discende dal collegamento all’App, che persiste dall’inizio fino al termine del turno di lavoro.

Commentando la sentenza, il quotidiano britannico The Guardian ha sollecitato un intervento legislativo, con un employment bill che intervenga a disciplinare la materia. La Gran Bretagna, così come altri Stati occidentali, si muove ormai nell’era di Internet e degli acquisti online: prima della pandemia, nel Regno Unito meno del 20% dei negozi vendevano online, mentre ora sono il 35,2%; in Italia le aziende dotate di ecommerce erano il 10% (Netcomm) e solo nei primi sette mesi dall’inizio della pandemia, secondo Unioncamere, sono aumentate del 15,5%. Negli ultimi anni, e ancor di più nell’era del Covid, driver e rider sono diventati una componente crescente della forza lavoro, facendo nascere, di conseguenza, un nuovo e più ampio bisogno di protezione.

L’ultimo anno, vissuto all’insegna della pandemia e di un nuovo modo di lavorare, ha insegnato che non si può più guardare al lavoro come a un’occupazione che impegna le persone dalle 9 alle 18, dal lunedì al venerdì. Esistono forme e modi differenti, ma tutti meritevoli delle giuste garanzie. A patto di non trasformare la flessibilità in una precarietà perenne e, nel caso dei rider, in un’asta continua per un’ora di lavoro.

Fonte: The Guardian

gig economy, Uber, driver


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Giorgia Pacino

Articolo a cura di

Giornalista professionista dal 2018, da 10 anni collabora con testate locali e nazionali, tra carta stampata, online e tivù. Ha scritto per il Giornale di Sicilia e la tivù locale Tgs, per Mediaset, CorCom - Corriere delle Comunicazioni e La Repubblica. Da marzo 2019 collabora con la casa editrice ESTE. Negli anni si è occupata di cronaca, cultura, economia, digitale e innovazione. Nata a Palermo, è laureata in Giurisprudenza. Ha frequentato il Master in Giornalismo politico-economico e informazione multimediale alla Business School de Il Sole 24 Ore e la Scuola superiore di Giornalismo “Massimo Baldini” all’Università Luiss Guido Carli.

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