Green pass in azienda, se gli intellettuali alimentano il sentimento anti-impresa
Alessandro Barbero è uno dei professori che si è schierato contro l’obbligatorietà del Green pass, definendola una decisione “ipocrita”. E non si può dargli torto, visto che chi dovrebbe prendere una decisione in merito all’obbligo dei vaccini, alla fine ha scelto per la soluzione più ‘comoda’: non l’obbligatorietà della vaccinazione, bensì quella della certificazione verde che serve per accedere praticamente a tutti i luoghi pubblici, ora anche agli ambienti di lavoro (vale per circa 23 milioni di lavoratori). Una differenza sottile, ma che mette al riparo i decisori dalle possibili accuse di ‘lesione’ dei principi di libertà personale: in fondo – immagino che sia il ragionamento fatto dai governanti – nessuno è obbligato a vaccinarsi se non accede ai luoghi che impongono l’esibizione del Green pass e quindi il rispetto delle libere decisioni sarebbe, in questo modo, salvo.
Ma se la classe politica ha rinunciato ad assumersi la responsabilità sulla questione, a chi tocca farlo (ancora una volta)? Ultimi in ordine di tempo, il compito ora è dei datori di lavoro (dopo che lo è stato, per esempio, per i ristoratori o per il personale scolastico…). Il nuovo decreto ha infatti deciso che a svolgere i controlli per i lavoratori devono essere le aziende (vale anche per la Pubblica amministrazione), con i loro delegati: serve individuare con atto formale gli incaricati all’attività di accertamento e di contestazione delle violazioni.
Significa quindi che alle aziende tocca farsi carico persino di dare un contributo sul controllo dell’andamento delle vaccinazioni, nonostante siano ancora impegnate nella lenta e difficile risalita dal baratro in cui sono finite a causa della pandemia (discorso non generalizzabile, perché è noto che ci sono settori industriali che sono cresciuti proprio durante questo periodo: secondo un recente Rapporto pubblicato dal Parlamento europeo, per esempio, l’industria digitale e quella farmaceutica-sanitaria sono state marginalmente colpite). Per chi se lo fosse perso, è l’ennesima richiesta di uno Stato che ormai in troppe occasioni bussa alla porta delle imprese chiedendo aiuto: per esempio l’ha già fatto per la previdenza, l’istruzione e la salute (pilastri del welfare aziendale, i cui servizi sono sgravati proprio perché l’offerta pubblica non è in grado di rispondere alle nuove necessità), ma pure per tanto altro, compresa la vaccinazione proprio contro il Covid-19.
Il ruolo sociale delle imprese: società benefit e B Corp
C’è chi di fonte a tutto questo ha criticato la decisione, arrivando a sostenere che “l’idea di affidare alle aziende un compito di controllo dei loro lavoratori è una cosa rischiosa”, perché in questo modo gli imprenditori avrebbero troppo potere di controllo su quello che fanno i dipendenti. A sostenerlo è proprio lo storico e docente dell’Università del Piemonte Orientale, che in un’intervista pubblicata sul quotidiano La Stampa si è detto preoccupato dalla situazione. “Non è certo quello che avrei voluto”, ha spiegato, pur precisando che l’obbligatorietà del vaccino sarebbe stata “un provvedimento più coraggioso e giusto”.
Viviamo in un clima nel quale c’è un forte e rinnovato sentimento anti-impresa e si assiste sempre di più alla diffusione di linguaggi che sembrano appartenere al passato (Barbero, che si definisce “molto di sinistra”, parla di “padroni” riferendosi alle aziende). Per chi non frequenta le aziende, sembrerà strano, ma esistono imprese – e imprenditori – che sono piuttosto lontane dall’idea ottocentesca dell’organizzazione aziendale tipica dei padroni. E che anzi sono passate da modelli di controllo ad altri di estrema responsabilizzazione delle persone con l’obiettivo di coinvolgerle (lo Smart working, quello vero, è esattamente la concretizzazione di questa strategia).
Sfugge poi tutto il movimento di società benefit e di B Corporation, che, come spiega con grande chiarezza sul nostro quotidiano Chiara Pazzaglia, sono quelle chiamate a perseguire finalità di beneficio comune e a operare in modo responsabile, sostenibile e trasparente nei confronti di persone, comunità, territori e ambiente… Si tratta di un’evoluzione della ben più nota Responsabilità sociale d’impresa che da tempo è svolta dalle aziende. E giusto per citare un dato, in Italia le B Corp – che per intendersi sono quelle che ottengono una certificazione da un ente apposito, dimostrando il rispetto di alcuni parametri – negli ultimi due anni sono quintuplicate: da 100 sono oltre 500 (e ci sono realtà di ogni dimensione). Non proprio aziende etichettabili come gestite da “padroni”.
Ovvio che, come spesso accade, nel mare magnum dell’imprenditoria ci siano imprese tutt’altro che interessate a perseguire interessi comuni e che anzi agiscono all’opposto della sostenibilità. Ai media piacciono particolarmente queste storie; peccato che ce ne siano tante altre che meriterebbero di essere raccontate proprio per essere virtuose (ma si sa che fa notizia solo se la mela mangia l’uomo e non viceversa).
Da metà ottobre 2021 quindi i datori di lavoro chiederanno alle loro persone di esibire il Green pass, con tutte le complessità organizzative che ne conseguono, ovviamente a spese della stessa azienda; se vogliamo credere che sia un modo per controllare i lavoratori, temo si stia andando nella direzione sbagliata. Per chi fa impresa si tratta solo dell’ennesima attività burocratica che invece di snellire, complica la gestione dell’organizzazione. Si obietterà: anche questa è sostenibilità, perché così si svolge un ruolo sociale. Siamo d’accordo: ma perché tocca sempre agli imprenditori tamponare le falle, prendendosi pure dei “padroni”?
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