I pericoli della discriminazione al contrario
Il tema ‘diversità e inclusione’ (in ambito manageriale indicato con l’acronimo D&I) è da molti indicato come l’hot topic HR del 2022; anche l’Agenda Onu 2030 raccomanda azioni in questa direzione. È tra le priorità di molte aziende, ma non è raro che le azioni intraprese in quest’ambito finiscano per scontentare un po’ tutti, incluso chi si sente minacciato dal rischio di quella che potremmo definire discriminazione al contrario. La questione ha un lungo trascorso che passa per momenti cruciali della storia come la segregazione razziale negli Stati Uniti o l’apartheid in Sudafrica, ma può essere così riassunta: se per livellare una forma di iniquità chi non ne ha mai sofferto è portato in una situazione più svantaggiosa rispetto al punto di partenza, è molto probabile che la reazione sia volta a individuare una forma di protezione.
Accade così, per esempio, che le promozioni delle donne a ogni livello siano associate, da chi le contesta, alle quote rosa e non al merito. E Oltreoceano, da qualche tempo, è stato chiesto di riservare quote ‘bianche’ nelle facoltà scientifiche statunitensi, perché gli studenti asiatici, con risultati al di sopra della media nelle discipline Stem (Science, technology, engineering and mathematics), tendono a occupare tutti i posti disponibili.
Gridare alla discriminazione al contrario è un problema reale o solamente un capriccio di chi vede messo in pericolo il proprio status? “È un problema reale e un alert molto importante, perché la Psicologia Sociale e Transculturale e la letteratura sull’argomento da decenni dicono che rinforzare una singola categoria di diversità non fa che aumentare le resistenza al cambiamento e la percezione di diversità”, spiega Shata Diallo, Psicologa e consulente di Mida, factory di consulenza indipendente per la people transformation, esperta di interventi di Change management.
Dal suo punto di vista questo è un tema che qualsiasi organizzazione che voglia facilitare l’inclusione dovrebbe tenere fortemente presente, perché si tratta di un meccanismo estremamente umano e spesso inconsapevole: davanti al rischio di perdere – con l’arrivo di una categoria percepita come diversa – una parte dei propri privilegi, destinati a essere distribuiti tra più persone rispetto a prima, la reazione più naturale è quella di entrare in una dinamica di protezione del proprio habitat. Un sentimento che aumenta ancora di più quando si vive in un contesto caratterizzato da scarsità di risorse; sottolineare la diversità ed esplicitare specifiche categorie è, inoltre, controproducente anche per chi è considerato diverso, che, aumentando la percezione di sentirsi tale, sviluppa rabbia e paura.
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Focalizzarsi sui comportamenti e non sulle categorie
Un meccanismo di questo tipo non è, dal punto di vista di Diallo, ingiustificato considerando che effettivamente nel momento in cui la diversità presente all’interno di un contesto aumenta questo significa che, per esempio, le posizioni manageriali possono essere ricoperte non più da un’unica categoria, ma da tutti. Quindi è fondamentale accompagnare le persone nel percorso di accettazione culturale che fa i conti con la perdita di un potere che si è sedimentato e radicato nel tempo. Anche spiegando alle aziende che in termini di business includere più forme di diversità permette di far crescere il patrimonio aziendale, come emerso anche dalla ricerca condotta nel 2021 da Mida in collaborazione con l’Università Cattolica di Milano coinvolgendo 50 organizzazioni, che ha messo in luce come le azioni in ambito D&I incidano su aspetti come, per esempio, la percezione dei consumatori e la retention dei talenti, fattori strettamente connessi alle performance di un’azienda.
Il concetto non è dividere la fetta di torta tra tanti, ma farne una che è più grossa per tutti. Non si tratta dunque di una frivolezza bensì di una dinamica sociale rilevante che se non è concretamente presa in considerazione porta a un grande rischio di resistenza da parte della maggioranza; e la maggioranza, per definizione, è un gruppo molto grande, che è quindi fondamentale avere a bordo in qualsiasi progetto di Change management, a maggior ragione per quelli che riguardano la D&I.
Perché le iniziative volte a livellare le discriminazioni non si trasformino quindi in trincee e barricate è necessario prestare grande attenzione ai modi in cui diversità e inclusione sono trattate e proposte. Esistono, insomma, modalità più efficaci di altre per parlarne e secondo Diallo il mantra è non lavorare su categorie, ma su comportamenti: “Il comandamento da tenere a mente all’interno di un’azienda è di non mettere il focus sulle singole diversità, ma su atteggiamenti in grado di generare inclusione all’interno dei contesti organizzativi, di qualsiasi diversità si tratti”, spiega. Che cosa significa in concreto? Nel caso, per esempio, della questione di genere invece di sottolineare le diversità tra donne e uomini è molto più efficace guidare le persone all’adozione di comportamenti in grado di stimolare un ecosistema che sia veramente inclusivo.
È sempre in quest’ottica, determinata a scongiurare il rischio di un’immediata divisione mentale tra schieramenti contrapposti, che Diallo raccomanda di lavorare con tutta la popolazione e non solo con determinati gruppi su prassi in grado di costruire ponti nella relazione con l’altro. In questo modo si sta comunque affrontando la questione, ma si stanno pure stimolando comportamenti più inclusivi anche nella maggioranza. “Mi chiedo sempre come possiamo immaginarci di cambiare un contesto organizzativo e far crescere le donne in posizioni manageriali se al momento queste sono ricoperte all’80% da uomini senza coinvolgere proprio questa quota di persone. È assolutamente impossibile farcela”, precisa Diallo.
L’inclusione diventa concreta anche facendo business
Lo stesso criterio estremamente pratico dietro a un approccio di questo tipo guarda con favore all’unione virtuosa tra l’inclusione e gli obiettivi di business. È chiaro che i programmi di D&I dovrebbero avere alla base un’adesione in termini valoriali ma storcere il naso davanti a chi li lega anche, soprattutto o solamente a logiche legate al profitto non porta lontano. Bisognerebbe, anzi, smettere di guardare alle questioni come in contrapposizione. Più che spaventare, il connubio tra inclusione e business costituisce una risorsa anche per dare concretezza e rilevanza al tema all’interno delle organizzazioni e per far sì che non sia esclusivamente una ciliegina sulla torta.
Spiega Diallo: “Dovremmo comprendere che fanno parte della stessa missione di valore, non solo per le organizzazioni, ma proprio per la nostra comunità. Sono anche dell’idea che all’interno delle aziende che fanno profit abbia assolutamente senso che l’imperativo economico abbia più peso di quello morale e di quello legale, che sono i tre imperativi che il World economic forum (Wef) ha indicato come determinanti quando si parla di inclusione. Con questa formulazione il Wef ammette che queste tre variabili sono interconnesse e non si muovono più su linee parallele”.
Discorso simile è quello che riguarda il rischio che le attività di D&I entrino nelle aziende solo nell’ottica di allinearsi a pressioni esterne, come possono essere quelle dell’Onu, o per non sottrarsi a un trend dominante (la famosa ‘moda passeggera’), senza che ci sia un reale interesse. Se per i più integralisti questo potrebbe essere un problema, dal punto di vista di Diallo non lo è: occuparsi del tema a partire da indicazioni di altri significa comunque ascoltare il territorio, osservare da parte dell’azienda ciò che accade intorno a sé e volerne far parte. “È sacrosanto, non ci vedo niente di male. La cosa importante però, perché non si tratti solo di un hot topic ma anche di un asset per l’organizzazione, è mettere a fuoco degli obiettivi precisi e non semplicemente tante singole azioni sporadiche. Rivolgersi, insomma, verso un’inclusione più sistemica allineata con il significato che la D&I ha per le persone in quell’azienda. Perché non dimentichiamo che si tratta di concetti che possono avere un significato molto diverso rispetto al contesto di riferimento”.
Infine, Diallo suggerisce che per raggiungere lo scopo c’è una via maestra da seguire: ingaggiare il Top management; dialogare con la linea; costruire alleanze con altre aziende e con il territorio, a partire da scuole e università. Senza dimenticare che, spinta da un trend o da una motivazione più profonda, la Direzione del Personale potrebbe aprire nuove e interessanti occasioni per tutta l’organizzazione.
Laureata in Filosofia, Erica Manniello è giornalista professionista dal 2016, dopo aver svolto il praticantato giornalistico presso la Scuola superiore di Giornalismo “Massimo Baldini” all’Università Luiss Guido Carli. Ha lavorato come Responsabile Comunicazione e come giornalista freelance collaborando con testate come Internazionale, Redattore Sociale, Rockol, Grazia e Rolling Stone Italia, alternando l’interesse per la musica a quello per il sociale. Le fanno battere il cuore i lunghi viaggi in macchina, i concerti sotto palco, i quartieri dimenticati e la pizza con il gorgonzola.
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