I rischi di assumere solo chi è in linea con la cultura aziendale
“Siamo rimasti colpiti dal tuo curriculum, ma non sei in linea con il nostro tipo di azienda”. Non è una novità che chi assume scelga candidati che, oltre a essere qualificati, ritiene si adattino meglio alla cultura aziendale; ma questo approccio spesso nasconde un sottobosco di pregiudizi che impedisce alle persone di ricoprire i ruoli che meritano.
Essere scelti per una cosiddetta idoneità culturale riguarda job title di ogni tipo. L’idea retrostante è che per l’azienda sia importante capire se le preferenze lavorative e i valori dei candidati corrispondano o meno a quelli dell’impresa. A grandi linee, se vuoi lavorare da casa, per esempio, servirebbe un’impresa con una politica che lo consenta; se sei un convinto ambientalista, non saresti culturalmente adatto per una lobby petrolifera; se sei alla ricerca di guadagni certi e immediati una startup appena creata non sarebbe il posto gusto.
Ma nella pratica la definizione di adattamento culturale è molto più ampia. “Tendiamo a cercare persone molto simili a noi o molto simili a gruppi di persone con cui già lavoriamo”, ha spiegato Gemma Leigh Roberts, Psicologa Organizzativa che lavora nel Regno Unito. “Simile” può significare qualsiasi cosa, da personalità affini a preferenze sociali e attributi fisici: “Il principio dell’omofilia indica che la somiglianza genera connessione, in ogni contesto, dal matrimonio al lavoro. Quindi a volte, quando qualcuno afferma che un candidato non è culturalmente adatto è di questo che stanno parlando e questo non è un feedback accettabile”, ha commentato Roberts.
Gli elementi che entrano in gioco sono moltissimi, ma il risultato finale della logica del ‘simile che sceglie il simile’ finisce per essere pericoloso soprattutto dal punto di vista della diversità: quando le aziende rifiutano i candidati in base all’idoneità culturale probabilmente stanno perpetuando forme di razzismo o di discriminazione legate all’età, al genere o all’orientamento sessuale. E questo vale nella più piccola delle startup così come nei colossi. Per chiunque possa, per le sue caratteristiche, alterare lo status quo dell’azienda sarà difficile entrare in settori in cui è attualmente sottorappresentato.
La trasversalità della discriminazione
Gli uomini bianchi hanno ancora un vantaggio complessivo in termini di adattamento culturale: quasi il 90% dei CEO della lista stilata annualmente dal magazine Fortune, che raccoglie le 500 più redditizie aziende statunitensi, rientra in quella fascia demografica. Tra le persone più discriminate ci sono invece, le donne, in particolare quelle di colore, e le persone di genere non binario. Ma anche altri gruppi sono ‘colpiti’.
Le aziende tecnologiche della Silicon Valley, per esempio, non considerano i candidati più anziani una buona scelta. Un rapporto del 2021 della no profit specializzata sull’occupazione Generation ha rilevato che solo il 15% dei responsabili delle assunzioni, in sette Paesi, ha considerato una buona scelta culturale persone Over 45 per posizioni di livello iniziale. Gli estroversi, poi, sono generalmente visti come più ‘adatti’ rispetto agli introversi. Anche le persone sovrappeso sono viste come candidati meno interessanti e le persone con disabilità devono fare domanda per il 60% in più di posti di lavoro rispetto a quelle senza.
Per molti gruppi sottorappresentati la minaccia dell’adattamento culturale li spinge a sminuire chi sono e a rendere più neutri possibile i loro cv. Altri ricorrono a modificare aspetti del modo in cui si presentano o si comportano nel tentativo di adattarsi. Ma l’onere dovrebbe essere sulle aziende, che dovrebbero valutare e adeguare le loro pratiche. “Molte persone pensano ancora alla cultura come se fosse statica”, ha spiegato Tara Ryan, Director of People Experience presso la startup fintech londinese Monzo, che nel recruiting segue il principio del culture add e non del culture fit: “Se non permetti alle persone di esprimere la loro cultura in realtà non stai massimizzando il potenziale della tua attività”.
Fonte: BBC
Laureata in Filosofia, Erica Manniello è giornalista professionista dal 2016, dopo aver svolto il praticantato giornalistico presso la Scuola superiore di Giornalismo “Massimo Baldini” all’Università Luiss Guido Carli. Ha lavorato come Responsabile Comunicazione e come giornalista freelance collaborando con testate come Internazionale, Redattore Sociale, Rockol, Grazia e Rolling Stone Italia, alternando l’interesse per la musica a quello per il sociale. Le fanno battere il cuore i lunghi viaggi in macchina, i concerti sotto palco, i quartieri dimenticati e la pizza con il gorgonzola.
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