Il butterfly effect dell’etica
Non basta avere un codice per essere etici. Sono le azioni dei singoli individui dell’impresa che fanno la differenza.
Esiste un’etica per la comunicazione aziendale? Chi si occupa di comunicazione aziendale può avere un’etica o è solo uno strumento nelle mani dell’azienda, alla quale deve assicurare la miglior narrativa possibile? Il tema è importante, soprattutto in questa fase, perché dall’emergenza Covid-19 possiamo uscire anche con un miglior modo di comunicare, più aderente alla realtà e meno storytelling, o, almeno, con narrazioni non dannose.
Da quasi 30 anni lavoro come comunicatore per agenzie e per grandi multinazionali. Dal mio punto di vista è poco interessante una riflessione etica che si fermi a giudicare le aziende tra ‘buone’ e ‘cattive’. Ci sono imprese per le quali è meglio non lavorare. Ma non è sufficiente lavorare per un’azienda etica per essere etici.
Perché la riflessione etica sia davvero interessante deve riguardare quello che è in mio potere fare; nelle scelte e nelle battaglie che possono fare. Non necessariamente vincere: prendere posizione e assumersi il rischio di farlo è già rendere testimonianza di un orientamento etico.
Tutto parte dalla responsabilità individuale. Non è semplice da valutare quanto sia esteso questo spazio di possibilità: a seconda dei momenti sembra piccolissimo o enorme. L’ego tende a dilatare, l’ansia associata alla responsabilità tende a ridurre.
Nel mio mestiere, sebbene non mi occupi di solito delle scelte di business, tuttavia ho un’area di autonomia ben precisa. Ho la responsabilità di decidere o, almeno di proporre, la strategia di comunicazione, scegliere tono e linguaggio. E questo lo posso fare in modo che corrisponda più o meno ai miei valori. Posso decidere di mettere, più o meno, di me stesso nelle cose che faccio. Questo sta a me.
Il rischio di essere parte della ‘cattiva’ comunicazione
All’inizio della mia carriera, mi trovai a lavorare per un’azienda di tabacco. Allora credevo che il comunicatore fosse una sorta di ‘avvocato di parte’, che avesse cioè come unico obbligo non mentire e sostenere il proprio cliente al meglio delle proprie possibilità. Non era così semplice.
L’azienda sosteneva una campagna per controbattere le implicazioni per la salute del fumo passivo, giocando sul concetto di rischio relativo, per cui, da un punto di vista statistico, mangiare biscotti e stare in ufficio con un fumatore erano sullo stesso piano di pericolosità. Adesso può sembrare follia. Ma allora non era tutto così assodato.
Fu un’esperienza terribile. Non è solo perché ero dalla parte sbagliata della barricata e perché si sosteneva il falso. Ma per come si sosteneva il falso. Se l’azienda avesse solo ridimensionato il rischio del fumo passivo sulla base di dati, per quanto di parte o incompleti, sarebbe stato forse accettabile. Perché ci poteva essere il contraddittorio. In realtà la campagna mirava deliberatamente a disorientare l’opinione pubblica, tirando in ballo concetti statistici comprensibili solo per addetti ai lavori, in modo tale che la questione sembrasse del tutto opinabile.
La campagna affermava che non fosse possibile dire cosa costituisse un rischio e cosa no. In quel caso la mia colpa non fu quella di sostenere l’assenza di rischio del fumo passivo – non c’erano ancora tutte le evidenze oggi disponibili – ma avvallare un approccio di comunicazione che rendesse impossibile la discussione, che insinuasse un dubbio per screditare chi sostenesse il contrario.
Sento di avere una responsabilità verso coloro nei confronti dei quali comunico, il mio target e gli stakeholder. Essere ‘di parte’ non significa avvelenare i pozzi. Ma proporre con chiarezza una posizione che possa essere oggetto di discussione.
Riorientare una ‘cattiva’ campagna di comunicazione
Le responsabilità sono particolarmente importanti quando la comunicazione accompagna un’azione di lobby, quando si chiede qualcosa allo Stato. Il caso è meno drammatico del precedente. Un’associazione di produttori di farmaci da banco (quelli senza obbligo di prescrizione) voleva lanciare una campagna centrata sul concetto di “ruolo sociale” del farmaco da banco. La posta in gioco non era enorme: si parlava di facilitazioni per la commercializzazione e per il marketing, nulla che mettesse a rischio la salute o chiedesse soldi pubblici. Tuttavia, quando il primo anno la campagna partì, mi trovai a disagio.
Quell’aggettivo “sociale” mi sembrava che non c’entrasse nulla, non era sostanziato ed era in contraddizione con il concetto del farmaco da banco, che è pagato dal consumatore ed è basato su una scelta individuale. Ne parlai con una giornalista amica. Mi disse che il “sociale” riferito al farmaco da banco era “polveroso”. Compresi perché mi suonava così male. Forse aiutava l’azione di lobby. Qualsiasi cosa abbia un ‘ruolo sociale’ si presenta bene: crea un’aura di accettabilità, anche se non si capisce perché.
In quel caso, però, al tempo stesso alzava un polverone sulla campagna. Confondeva le acque. Era ingannevole, perché travestiva il prodotto di autocura, una terapia limitata nei suoi scopi, in uno strumento di sanità pubblica. Riuscii a cambiare la campagna sostenendo che “sociale” non era efficace e che i nostri interlocutori non capivano cosa volesse dire. Che era “polveroso” nel senso che era vecchio e stantio. Soprattutto l’ultima considerazione convinse il cliente. Una piccola vittoria ottenuta, per altro, senza discutere l’eticità della strategia.
La ‘buona’ comunicazione e il rispetto per chi è più fragile
Mi sono occupato per diversi anni di tumore al seno, non tanto negli aspetti di prevenzione, quanto di convivenza con la malattia, soprattutto nella fase avanzata. Una narrativa molto diffusa sui media descriveva – oggi meno – la paziente con questa malattia come una “guerriera” che, alleata con la medicina, ingaggia una battaglia senza esclusione di colpi contro la malattia, sconfiggendo così il cancro.
Questa impostazione da una parte nasceva per celebrare i successi della medicina contro questo tumore, che risulta oggi in gran parte curabile, almeno se preso in fase precoce, e come incoraggiamento della paziente. Ma anche perché era più facile e immediata. Evitava tutte le complessità della malattia. Nel mio caso, però, mi occupavo con la comunicazione di pazienti con tumore avanzato che non potevano essere più guarite.
La narrativa della guerriera era completamente fuori posto. Non solo da un punto di vista scientifico. Soprattutto perché diffondeva un modello nel quale se la malattia vince è perché non hai combattuto abbastanza. Un ‘modello aspirazionale’ irraggiungibile e debilitante per molte donne che hanno avuto la vita devastata dal tumore e che fanno fatica a venirne a capo anche psicologicamente. Una mancanza di rispetto per chi è più fragile.
Devo dire che escludere e, anzi, combattere il ‘modello guerriera’ nella comunicazione non è stato difficile; anzi, fu una decisione collettiva, segno di attenzione etica all’interlocutore da parte dell’azienda.
Siamo partiti dal tabacco per arrivare al tumore al seno: un percorso per capire come sia importante l’incremento della consapevolezza personale per sviluppare un senso di rispetto per i propri interlocutori, alla base delle scelte etiche di chi fa comunicazione.
Vorrei condividere un po’ di ottimismo: se anni fa per motivare una posizione etica su una campagna era necessario nascondersi dietro ai richiami all’efficacia, oggi l’attenzione etica all’interlocutore mi sembra molto più accettata.
Il passo successivo potrebbe essere quello di considerare l’aggettivo “etico” non come un interruttore acceso o spento, ma come meta da raggiungere attraverso approssimazioni successive, grazie anche allo scambio e alla discussione. Il comportamento etico non è dato una volta per tutte. Ogni giorno possiamo scoprire come migliorare, come essere più etici, ragionando con noi stessi e con gli altri.
* Matteo Fantoni è Consulente senior di comunicazione