Il Covid riporta l’anagrafe al 1918
Un saldo così negativo non si vedeva dal 1918, ai tempi dell’influenza spagnola. Nel 2020 in Italia i morti hanno superato i nuovi nati di 300 mila unità. I morti sono stati 1990 al giorno, di cui in media 200 portati via dal Covid. Secondo il presidente dell’Istat Gian Carlo Blangiardo, che ha commentato i dati dell’Anagrafe con una prima riflessione sul bilancio demografico del 2020, si è sforato un doppio limite: il margine superiore dei 700 mila morti, oltrepassato nell’arco degli ultimi cent’anni soltanto durante l’epidemia di spagnola e nel corso del Secondo conflitto mondiale, e il limite inferiore dei 400 mila nati, una soglia mai raggiunta negli oltre 150 anni di Unità Nazionale.
L’Italia è tra i Paesi sviluppati che maggiormente hanno lasciato crescere negli ultimi decenni, in modo accentuato, squilibri demografici (e non solo). Questi squilibri costituiscono un rilevante freno allo sviluppo competitivo dell’economia e rischiano di alimentare diseguaglianze generazionali, di genere, sociali e territoriali. Possono essere gestiti e superati solo passando dalla preoccupazione dei rischi legati a vincoli e costi, all’investimento sulla capacità di produrre ricchezza e benessere delle nuove generazioni, ma anche incentivando e valorizzando un contributo attivo in tutto il corso di vita, a partire dall’ambito sociale fino a coinvolgere persino il sistema produttivo. Riproponiamo un contributo sul tema di Alessandro Rosina, Professore Ordinario di Demografia alla Facoltà di Economia dell’Università Cattolica di Milano, inserito all’interno del Quaderno di Sviluppo&Organizzazione La dimensione etica del benessere organizzativo (ESTE, 2018) con il titolo “Democrazia e welfare: verso una relazione positiva”.
Welfare per armonizzare demografia ed economia
Costruire una società in grado di produrre benessere impone di mettere in relazione positiva demografia ed economia, con il welfare chiamato a rivestire il ruolo di elemento in grado di creare la sintonia tra queste due componenti. Utilizzo quindi questa chiave di lettura, mettendo in relazione gli indicatori demografici e gli indicatori economici.
Inizio focalizzando l’attenzione sulla relazione tra debito pubblico sul Prodotto interno lordo e il tasso di fecondità totale: nel grafico di Figura 1 si mostra quello che è stato il ‘percorso’ dell’Italia dal Secondo Dopoguerra ai giorni nostri. Si tratta di due indicatori molti diversi tra loro: la linea con i quadrati indica il numero medio di figli per donna; la linea con i rombi, invece, indica l’andamento del debito pubblico sul Pil.
Non voglio evocare possibili relazioni causali tra questi due indicatori, piuttosto voglio considerarlo come un grafico che esprime quello che è stato il nostro percorso di sviluppo nell’ultimo mezzo secolo. Cosa svela il grafico? Ci dice che la storia recente dell’Italia può essere sostanzialmente divisa in due parti.
Nella prima parte la relazione tra demografia, economia e welfare è stata positiva. Si tratta di un periodo in espansione, nel quale il Paese si è rivelato capace di interpretare adeguatamente ciò che in quel tempo serviva per mettere i cittadini, le famiglie e le imprese nelle condizioni di far ancora di più e meglio di prima, con aspettative crescenti di un futuro positivo da costruire, sempre mantenendo una chiara idea di quale welfare serviva per costruire sicurezza sociale, sostenere scelte positive, mettendo tutti nelle condizioni di fare, di provare, di crederci.
Finita quella fase, il Paese non è più stato in grado di rinnovarsi, di interpretare i nuovi tempi, ed è scivolato progressivamente verso una condizione di basso sviluppo. Anziché produrre nuovo benessere si è trincerato in difesa delle posizioni raggiunte. Anziché mettere il presente a servizio del futuro, ha iniziato a piegare il futuro agli interessi del presente: cresce il debito pubblico e diminuisce la natalità. Il numero di figli per donna è sceso sotto la soglia di 2 (corrispondente all’equilibrio generazionale) a fine anni Settanta, sotto il livello di 1,5 nel corso degli anni Ottanta, rendendoci uno dei Paesi con più bassa fecondità al mondo. Non siamo poi più riusciti a risalire sopra tale livello. Oggi il tasso di fecondità è inferiore a 1,35 figli per donna. Non è tanto l’aumento dell’aspettativa di vita che ci rende uno dei Paesi con maggior peso al mondo della popolazione anziana su quella totale, ma la drastica riduzione dei giovani, come conseguenza della denatalità. Ci troviamo così con generazioni sempre più ridotte con debito pubblico sempre più gravoso. Evidentemente qualcosa non ha funzionato nel perseguire l’obiettivo di dare basi solide al futuro comune.
Quello che non ha avuto successo è in gran parte legato al sistema di welfare, che è rimasto immutato nel tempo. È mancato l’impegno attivo a far emergere e sostenere le componenti della società che avrebbero potuto produrre nuovo benessere. E così, dopo i primi 30 anni ‘gloriosi’ del Secondo Dopoguerra – dove tutto ha funzionato bene (pur con molte contraddizioni, siamo cresciuti, abbiamo migliorato i nostri livelli di benessere, ricchezza, mobilità sociale) – nei decenni successivi abbiamo smarrito vigore, perdendo slancio verso il futuro e terreno rispetto alle altre economie avanzate e a quelle emergenti.
Il nostro Paese non si è rimesso in discussione all’interno di un mondo che cambiava, ripensando il proprio modello economico e sociale. Abbiamo commesso l’errore di pensare di conservare il benessere mantenendo il più possibile vecchi equilibri (che però erano sempre meno in sintonia con l’attualità), anziché cercare nuove soluzioni, anticipare il cambiamento e predisporre gli strumenti necessari per difendersi da nuovi rischi e cogliere opportunità inedite.
Nel corso dei ‘30 gloriosi’ eravamo riusciti a realizzare ciò che in quel tempo serviva per dar sicurezza e benessere (un esempio è il sistema sanitario nazionale). Dagli Anni 80 in poi i servizi su cui investire erano quelli per l’impiego, ovvero le politiche attive del lavoro, e quelli per l’infanzia, ovvero le politiche di conciliazione tra lavoro e famiglia. Questi fronti sono stati lasciati colpevolmente sguarniti.
Ciò che è ora evidente è che l’Italia ha una persistente carenza di investimenti in ciò che genera valore a partire dal capitale umano nelle aziende, unita all’incapacità di riorientare il welfare come investimento sociale che favorisce formazione, attivazione e abilitazione nella vita delle persone. Le conseguenze sono state rinunce micro e squilibri macro, interdipendenti tra di loro, con conseguente caduta in un circuito vizioso che vincola verso il basso la crescita economica e il benessere sociale (meno competitività e più diseguaglianze). A livello macro c’è una riduzione della quantità assoluta e relativa di chi produce ricchezza; a livello micro si assiste al deterioramento delle condizioni di entrata nella vita attiva, con ricadute sulla qualità dell’esistenza. Le nuove generazioni si sono così trovate ‘schiacciate’ verso il basso.
Verso una società con pochi giovani
La carenza di welfare (inteso in senso attivo, come investimento sociale) e l’assenza di strumenti in grado di mettere le persone nella piena abilitazione a realizzare i propri progetti di vita, non consente al Paese di crescere. Il risultato, come detto, è una popolazione di giovani sempre più limitata. Gli Under 30 fanno fatica a conquistare la propria autonomia dalla famiglia d’origine e non riescono a costruirsi solidi progetti di vita. Le giovani coppie rinunciano ad avere il numero di figli desiderato. Più che nel resto d’Europa le donne si trovano con la scelta di lavorare e di avere un figlio che entrano in collisione. Siamo così diventati, appunto, un Paese che induce, a livello individuale, a rinunce nei percorsi di vita e vede allargarsi, a livello collettivo, squilibri strutturali e diseguaglianze sociali.
La crisi economica ha accentuato molte difficoltà. Ma non basta uscire dalla crisi. Non basta nemmeno recuperare quello che non abbiamo fatto nei decenni andati. Serve un modello di sviluppo in sintonia con le sfide di questo secolo e le nuove esigenze delle famiglie, delle imprese e del sistema Paese. È allora necessario dare risposte inedite in grado di ridare vigore alle componenti della società in grado di produrre nuova ricchezza. Questo vuol dire compensare la riduzione quantitativa delle nuove generazioni accelerando l’entrata dei giovani nel mercato del lavoro, accompagnando il loro passaggio verso le età centrali della vita produttiva del Paese. Significa anche consentire di trasformare l’aumento della longevità in invecchiamento di successo, valorizzando tutte le fasi della vita e la collaborazione tra generazioni.
Professore Ordinario di Demografia alla Facoltà di Economia dell’Università Cattolica di Milano
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