Il Governo Draghi e le sfide aperte del lavoro

Le questioni tuttora ‘aperte’ che il nuovo Governo di Mario Draghi (se riuscirà effettivamente a decollare) si troverà ineluttabilmente sul tavolo sono molteplici e di impatto assai significativo non solo per imprese e lavoratori ma, in un certo senso, per l’intera società civile in ragione degli effetti a catena che possono avere sull’economia globale del Paese, ancora afflitto dalle drammatiche conseguenze – sanitarie non – della pandemia.

Oltretutto si tratta di questioni che, in buona parte, sono il portato di problematiche irrisolte risalenti nel tempo e/o di modifiche nell’organizzazione delle imprese innestate (o quanto meno accelerate) dalla pandemia stessa e dalla conseguente proclamazione dello stato di emergenza per Covid-19 che, non dimentichiamo, vige ormai dal 31 gennaio 2020 e che rischia fortemente di essere prorogato anche oltre l’attuale scadenza del 30 aprile 2021.

In più va considerata l’eterogeneità dei soggetti che a vario titolo dovrebbero-potrebbero occuparsi di identificare le soluzioni più idonee per tali problematiche a seconda dei particolari profili tecnici in gioco (Governo, Parlamento, Regioni, Pubblica amministrazione, parti sociali, ecc.) in un puzzle di competenze teoriche nel quale è difficile districarsi e che si rischia di per sé di appesantire la fase di execution (se non quella di vera e propria configurazione ‘a priori’) delle connesse azioni concrete da intraprendere.

Tutto ciò a prescindere dal fatto che tali azioni possono essere ovviamente ipotizzate-delineate diversamente anche in virtù o del peso politico ‘specifico’ o dell’approccio ideologico dei vari partiti che si trovassero al fine a comporre la maggioranza di Governo (un Esecutivo tutto politico oppure interamente tecnico o ancora caratterizzato da un mix tra questi due aspetti). Si tratta, come è agevolmente comprensibile, di dettagli di contesto non proprio equivalenti anche sotto il profilo della successiva gestibilità operativa delle soluzioni prospettabili per affrontare i vari temi sul tappeto.

Al di là di queste necessarie considerazioni di fondo, le tematiche di maggior rilievo immediato vanno individuate in primis nell’intricato intreccio giuridico tra cassa integrazione speciale per Covid-19 e blocco dei licenziamenti, nonché nella prosecuzione, inalterata o meno, del regime di Smart working semplificato che è stato ed è applicato nel corso dello Stato di emergenza.

Sul tavolo cassa integrazione e blocco dei licenziamenti

In merito alla cassa integrazione speciale per Covid-19 e licenziamenti, la scelta da compiere subito riguarda per prima cosa l’opportunità o meno di un’ulteriore proroga del blocco (l’ipotesi vede tendenzialmente contrarie le organizzazioni datoriali e invece decisamente favorevoli le organizzazioni sindacali). In caso di risposta positiva, la seconda questione è sull’opzione tra una permanenza generalizzata del blocco (al limite con le attuali, molto ridotte, possibilità di deroga) o il mantenimento ‘selettivo’, cioè circoscritto solo a quei settori merceologici più colpiti dalla pandemia e che comunque stanno maggiormente arrancando nel riposizionarsi sul mercato.

A tale scelta di partenza va poi logicamente collegata anche quella sulla conservazione o meno (e il relativo ambito temporale) della Cig Covid quale normativa speciale o del ritorno al regime degli ammortizzatori sociali ex ante (mediamente più costoso per le imprese). Si tratta peraltro di una decisione che andrebbe ontologicamente connessa a una visione non più tattica, bensì strategica della costruzione di una riforma complessiva degli ammortizzatori sociali strettamente legata al sostegno di paralleli interventi sulle cosiddette politiche attive del lavoro e quindi sostanzialmente improntata non tanto al puro assistenzialismo (che potrebbe al limite essere gestito tramite la riforma della Naspi e del reddito di cittadinanza, temi sui quali il Governo deve pure cimentarsi) quanto piuttosto al sostegno all’occupabilità futura dei lavoratori sul mercato.

Se si volesse parafrasare un’icastica espressione usata tempo fa dallo stesso Draghi, ciò servirebbe a evitare che sul mercato si trovino ancora non solo imprese ‘zombie’ sul piano economico finanziario, ma pure lavoratori ‘zombie’ sul piano professionale… Un mutamento di questo rilievo storico richiederebbe d’altronde che il nuovo Governo si decidesse finalmente a prorogare formalmente, almeno per il 2021, la vigenza della normativa sul Fondo nuove competenze scaduta a fine dicembre 2020. Stiamo facendo riferimento a quello strumento istituito proprio per supportare i progetti imprenditoriali di riqualificazione-formazione professionale dei propri dipendenti, semplificando il più possibile le procedure di accesso oggettivamente troppo complesse soprattutto per le imprese meno strutturate e meno aduse a relazioni sindacali continue ed efficaci.

Sulla questione della formazione professionale, andrebbe inoltre rivitalizzato tutto il ruolo dell’Agenzia regionale per le politiche attive del lavoro (Anpal) – competente per l’approvazione dei progetti formativi di questo tipo – magari studiando un sistema ‘istituzionalizzato’ di collaborazione costante con le agenzie private di somministrazione di lavoro.

Risolvere le questioni legate allo Smart working

Per quanto concerne infine lo Smart working, il primario punto di cui il Governo ed il Parlamento dovrebbero occuparsi è la scelta tra una delle seguenti tre possibilità. La prima è la conferma della legislazione vigente pre pandemia fondata sulla necessità di un accordo individuale tra datore di lavoro e lavoratore per la legittimità del lavoro agile. La seconda è la modifica della Legislazione, in modo più o meno radicale, in un senso più liberale o, per converso, più restrittivo. Infine la terza possibilità legata allo Smart working è l’affidamento alla contrattazione collettiva di specifici compiti di regolamentazione integrativa sostitutiva della disciplina legale e fissazione del relativo livello contrattuale di competenza.

Last but not least, va sottolineato che comincia a stagliarsi minaccioso sul fondale il ‘re’ dei problemi futuri, cioè la questione del diritto-dovere del datore di lavoro-committente di esigere-stimolare la vaccinazione anti Covid dei propri dipendenti-collaboratori. È questo un tema da gestire con molta attenzione tecnica e ‘sensibilità’ politica se non si vuole piombare in una nuova tempesta perfetta anche sul piano giuridico (visto oltretutto i peculiari profili di delicatezza costituzionale) e organizzativo.

Ernesto Di Seri cura la rubrica ‘Scenari del lavoro’ sul bimestrale ESTE, Sviluppo&Organizzazione
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Ernesto Di Seri

Docente a contratto di Diritto per l'Ingegneria all'Università Luic Carlo Cattaneo di Castellenza. Sulla rivista ESTE Sviluppo&Organizzazione cura la rubrica 'Gli scenari del lavoro' in cui analizza le dinamiche complesse del lavoro, innescate da fattori sociali, tecnologici, giuridici e contrattuali.

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