Il lato B (Corp) dell’etica di impresa
Ci sono aziende che non si accontentano di alimentare il capitale, ma che hanno fatto della collaborazione, della ricerca di soluzioni non convenzionali, della logica win-win (per citare l’economista John Nash) il motore della propria azione. Non esiste una formula univoca, che possa essere vincente per tutti. Esistono, però, alcuni strumenti che, con caratteristiche differenti e tratti comuni, hanno contribuito a regolamentare e certificare l’approccio etico e la sostenibilità delle imprese che, volontariamente, intraprendono questi percorsi.
Abbiamo interpellato, in particolare, diverse aziende che hanno scelto di trasformare la propria forma giuridica in “società benefit” e altre che hanno optato per il conseguimento della certificazione denominata “B Corp”. Alcune di esse hanno raggiunto entrambi gli step, perché considerati complementari e non antagonisti.
In effetti, la forma giuridica della società benefit è un’idea tutta italiana. Questa tipologia di azienda, infatti, è stata introdotta nel nostro ordinamento con la legge di Stabilità del 2016. Secondo la definizione normativa, si tratta di società che “nell’esercizio di un’attività economica, oltre allo scopo di dividerne gli utili, perseguono una o più finalità di beneficio comune e operano in modo responsabile, sostenibile e trasparente nei confronti di persone, comunità, territori e ambiente, beni e attività culturali e sociali, enti e associazioni ed altri portatori di interesse”.
Capiamo facilmente come questa novità normativa vada ben oltre la Responsabilità sociale d’impresa (spesso nota come Corporate social responsibility e abbreviata in CRS): un cambio di statuto, infatti, vincola non solo il presente dell’azienda, ma anche il futuro. Potranno cambiare il management e la proprietà, ma la società benefit imporrà a chiunque di rispettare la propria natura, ben indicata nel proprio oggetto sociale. Essa, cioè, deve sempre perseguire ricadute positive o, almeno, la riduzione degli effetti negativi sulle singole persone, comunità, territori e ambiente, beni e attività culturali e sociali, enti e associazioni e altri portatori di interesse.
Questa scelta ha evidenti impatti organizzativi e strategici sull’impresa, in quanto gli obiettivi di beneficio comune sono paritetici rispetto agli obiettivi di profitto. L’inosservanza degli obblighi può costituire da un lato una inadempienza da parte degli amministratori, dall’altro potrebbe rendere l’azienda imputabile di ‘pubblicità ingannevole’. Una delle principali obiezioni nei confronti di questa pratica deriva dal fatto che, nella pratica, non esiste alcuna sanzione amministrativa per chi sgarra, dal momento che è titolata alla vigilanza solo l’Autorità garante della concorrenza e del mercato (Agcm).
Ecco perché accade di frequente che le aziende scelgano di conseguire anche una certificazione. La più diffusa, che sta prendendo piede anche nel nostro Paese con frequenza sempre maggiore, è la B Corp. Se, infatti, i numeri sono parametri certi di misurazione del profitto, non è facile fare altrettanto per quanto riguarda i beni intangibili.
La certificazione B Corporation (o B Corp) è diffusa in 71 Paesi e 150 settori diversi, rilasciata alle aziende da B Lab, un ente no profit internazionale. Per ottenere e mantenere la certificazione, serve raggiungere un punteggio minimo su un questionario di analisi delle proprie performance ambientali e sociali e integrare nei documenti statutari il proprio impegno verso gli stakeholder. Questa certificazione, a differenza della società benefit, non comporta alcun riconoscimento giuridico né vincoli di legge. Nonostante sia molto impegnativo da ottenere, nell’ultimo biennio le aziende italiane B Corp sono passate da 100 a oltre 500 ed è sorprendente scorrerne i nomi: ci sono realtà molto note e di ogni dimensione.
Il futuro è nella sostenibilità
Tutte le aziende che hanno intrapreso uno dei due percorsi, divenendo società benefit o scegliendo la certificazione B Corp, sono concordi nell’osservare che non sia possibile essere incoerenti tra ciò che si è e ciò che si comunica all’esterno: non si decide di avviare percorsi così complessi (perché definitivo l’uno, molto impegnativo l’altro) solo per crearsi una vetrina patinata o per aumentare il giro d’affari: sarebbe controproducente.
L’aumento esponenziale di queste realtà, avvenuto negli ultimi anni, ci porta a dire che il futuro del nostro Pianeta, della nostra società, ma anche dell’economia – a livello micro e macro – è sempre meno nelle mani dei Governi e sempre più in quelle delle aziende, che hanno una responsabilità crescente. Ecco perché, tra qualche tempo, non è utopistico pensare che quasi tutte le aziende, di ogni dimensione, saranno obbligate ad assumersi queste responsabilità e bisognerà trovare, quindi, nuovi parametri, forme societarie e certificazioni, che siano ancora più vincolanti in termini etici.
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Bolognese, giornalista dal 2012, Chiara Pazzaglia ha sempre fatto della scrittura un mestiere. Laureata in Filosofia con il massimo dei voti all’Alma Mater Studiorum – Università degli Studi di Bologna, Baccelliera presso l’Università San Tommaso D’Aquino di Roma, ha all’attivo numerosi master e corsi di specializzazione, tra cui quello in Fundraising conseguito a Forlì e quello in Leadership femminile al Pontificio Ateneo Regina Apostolorum. Corrispondente per Bologna del quotidiano Avvenire, ricopre il ruolo di addetta stampa presso le Acli provinciali di Bologna, ente di Terzo Settore in cui riveste anche incarichi associativi. Ha pubblicato due libri per la casa editrice Franco Angeli, sul tema delle migrazioni e della sociologia del lavoro. Collabora con diverse testate nazionali, per cui si occupa specialmente di economia, di welfare, di lavoro e di politica.
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