Lavoro tridimensionale

Oltre a spazio e tempo, a lavoro servono le relazioni

Impostare un ragionamento sui luoghi di lavoro è sfidante. Poiché è necessario uscire dalla dicotomia ‘ufficio tradizionale versus spazi condivisi’, il tema non deve essere affrontato in modo superficiale. Potremo trovare sulla nostra strada i nostalgici dell’ufficio, con pianta e foto sulla scrivania, così come gli strenui sostenitori del desk sharing. Alla base c’è una nuova idea di come si lavora che va analizzata.

Inutile negare che il covid abbia sparigliato le carte. Non vogliamo entrare nel merito delle modalità di lavoro abilitate dalla tecnologia. Tutti sappiamo usare Teams e siamo in grado di risolvere un problema anche se siamo lontano, appunto, dalla scrivania, nostra o condivisa. Dividersi tra chi difende a tutti costi la proprietà dello spazio e chi loda l’efficacia della condivisione è largamente improduttivo. Più utile, invece, entrare nel cuore della questione e farsi delle domande. Che esigenze hanno oggi le persone? Se si sono abituate a lavorare da casa, come fare per riportarle in ufficio, convincerle a sfidare il traffico tornando ad affrontare problemi legati alla conciliazione che apparivano risolti? Questo il dilemma della Direzione del Personale. Più facile sarebbe tornare indietro guardando a quello che già si conosce anziché osare il nuovo con il rischio di dover immaginare nuove sintesi tra tempi e spazi di lavoro.

La pandemia è stata un detonatore e il cambiamento ha riguardato tutti. E ha portato molti a credere che il luogo, e le relazioni che si sviluppano in quel luogo, siano poco rilevanti. Per questo la strada del Direttore del Personale, di questi tempi, è in salita. Ma il cambiamento c’è ed è epocale: la Direzione del Personale deve passare dall’organizzazione dell’attività delle persone in luoghi, spazi e tempi definiti, alla gestione del lavoro entro spazi meno circoscritti e al di fuori di un tempo definito. Il passaggio dalla bidimensione alla tridimensione destabilizza e richiede nuove capacità manageriali. Se la prima richiesta a un colloquio, soprattutto da parte dei giovani, riguarda la possibilità di stare a casa, ne consegue che la prospettiva rispetto all’organizzazione del lavoro cambia totalmente. E se si avvalora la teoria manageriale secondo la quale gli obiettivi non si raggiungono da soli, ma in gruppo, è necessario che i team si manifestino anche al di fuori delle chat di WhatsApp. Per questo è necessario partire dai significati. Cos’è il lavoro? Cosa rappresenta per me? In che modo contribuisce a costruire la mia identità? Come mi arricchisce, spiritualmente e culturalmente? Non ci si può affidare a sedicenti guru della Rete per trovare risposte convincenti. Gli influencer della new way of working, secondo me, non hanno mai gestito persone né tantomeno devono rendere conto del proprio lavoro a un amministratore delegato. Quindi possono permettersi di propagandare come efficaci, modalità di lavoro, magari affascinanti, ma che difficilmente daranno risposte alle domande di prima.

Come vivono oggi le persone? Si sta ridefinendo il loro palinsesto privato e pubblico: tempo di lavoro e tempo libero non sono mai stati così mescolati. Il mondo, scandito da tempi quotidiani immutabili e da stagioni personali differenziate, pare finito. E qui scatta la bravura di imprenditori e Direttori del Personale che mettono in discussione modalità organizzative consolidate e ripensano se stessi, il lavoro e i suoi luoghi. Fondamentale è lo sforzo che ogni azienda deve compiere per configurare un ecosistema a geometria variabile, da immaginare in modo nuovo.

Lo scenario ci dice che è insensato imbrigliare con troppa rigidità tempi e spazi. Ma è anche indispensabile creare un contesto all’interno del quale le persone possano costruire quel senso di appartenenza che vale più di molti incentivi. Se i nuovi layout non consentono di tenere foto sulla scrivania, le aziende devono conoscere la nostra vita al di là del ritratto che avremmo incorniciato. Perché dietro a quella foto c’è una vita, una famiglia, un genitore, un figlio. E se è indifferente la scrivania che scelgo per lavorare, non deve però essere fungibile chi quella scrivania la occupa. Altrimenti davvero un luogo vale un altro, un lavoro vale un altro. Una spirale che genera un eccesso di mobilità che non fa bene a nessuno.

Tutte le relazioni, anche quelle di lavoro, vanno coltivate, all’insegna della reciprocità. La Direzione del Personale deve ripensarsi, ma anche chi ogni giorno varca le soglie dell’azienda, o accende un Pc, deve mettersi in gioco e contribuire a raggiungere obiettivi comuni. L’azienda non è un’entità metafisica o una categoria dello spirito. L’azienda, come recitava il titolo di un ciclo di incontri di qualche anno fa, è una costruzione comune.

spazi di lavoro, ufficio del futuro, flessibilità, relazioni


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Chiara Lupi

Articolo a cura di

Chiara Lupi ha collaborato per un decennio con quotidiani e testate focalizzati sull’innovazione tecnologica e il governo digitale. Nel 2006 ha partecipato all’acquisizione della ESTE, casa editrice storica specializzata in edizioni dedicate all’organizzazione aziendale, che pubblica le riviste Sistemi&Impresa, Sviluppo&Organizzazione e Persone&Conoscenze. Dirige la rivista Sistemi&Impresa e governa i contenuti del progetto multicanale FabbricaFuturo sin dalla sua nascita nel 2012. Si occupa anche di lavoro femminile e la sua rubrica "Dirigenti disperate" pubblicata su Persone&Conoscenze ha ispirato diverse pubblicazioni sul tema e un blog, dirigentidisperate.it. Nel 2013 insieme con Gianfranco Rebora e Renato Boniardi ha pubblicato il libro Leadership e organizzazione. Riflessioni tratte dalle esperienze di ‘altri’ manager. Nel 2019 ha curato i contenuti del Manuale di Sistemi&Impresa Il futuro della fabbrica.

Chiara Lupi


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