Pil_Italia

Il mal di Pil (dell’Italia)

Come già ben sappiamo, l’Italia si trova sul piano inclinato di continua perdita di Prodotto interno lordo reale rispetto agli altri Paesi. Tale discesa relativa, iniziata 30 anni fa, non ha mai invertito la sua pendenza; anzi, dal 2008 si è pure aggravata, visto che in tre decenni abbiamo accumulato un gap del 30% rispetto agli altri Paesi europei. Questo fatto è particolarmente critico per noi, soprattutto in questo periodo di stagnazione con rischio di recessione, in quanto non abbiamo i margini per assorbire ulteriori riduzioni di Pil pro capite senza dover mettere in discussione persino la sostenibilità del nostro sistema socio-economico.

Dobbiamo inoltre valutare che le considerazioni ottimistiche a riguardo dell’attuale trend – di cui si parla su qualche media – rischiano solo di illuderci, perché sono fatte confrontando gli attuali dati del Pil con quelli del 2020: se è vero che in tale confronto risulta che in questo periodo abbiamo performato meglio di altri Paesi europei (+1,2% rispetto alla media europea), ci si dimentica di considerare che quattro anni fa l’Italia, rispetto alla media europea, aveva perso ben il 2,3% in più a causa delle maggiori restrizioni per la pandemia da Covid-19 e che quindi dovevamo ovviamente recuperare di più degli altri. Nonostante questo recupero, siamo però ancora ai livelli di Pil reale del 2007.

La realtà è che abbiamo una base economica che da 30 anni non riesce a crescere e a tenere il passo degli altri. Ed è in continuo smottamento, visto che tutti i finanziamenti immessi negli anni scorsi non sono riusciti a risollevarla. Questo perché ogni intervento mirante ad attivare nuove capacità competitive non trova una base solida su cui innestarsi. Lo conferma il fatto che oggi l’Italia ha un indice di produttività tornato ai livelli del 1970 (dopo una perdita di ben il 12% dal 2000 in avanti). È allora chiaro che in questa realtà anche gli interventi del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) rischiano di non produrre effetti.

Per poter contare su di una base solida sulla quale nuovi investimenti possano dare frutti positivi, occorrerebbe ora intervenire prioritariamente con azioni di consolidamento del terreno economico, rimuovendo le cause di questo bradisismo negativo. La maggior parte di tali cause non è però purtroppo rimovibile velocemente: si tratta prevalentemente di mancati agganci ai trend di sviluppo dell’economia mondiale, che dovremo ora tentare di ricostruire con determinazione. L’impossibilità di tali recuperi in tempi brevi ci costringe a dover trovare anche azioni che consentano di aumentare – o almeno di non peggiorare – il Pil nel breve-medio termine. Dovremmo quindi applicare quella che è chiamata “Strategia duale”, cioè azioni che possano rimediare a parte delle mancanze accumulate nel passato e contemporaneamente consentano un aumento veloce del Pil, agendo su quelle leve che sono meno influenzate dalle mancanze accumulate.

Le cause del degrado hanno radici lontane

Per quanto riguarda le cause del nostro degrado relativo, esse sono molteplici e di varia natura. Concentriamoci su quelle che riguardano la struttura del nostro sistema economico. Su queste è, in effetti, possibile trovare i momenti storici in cui si sono riscontrati i distacchi competitivi rispetto agli altri Paesi europei e correlarli con i cambiamenti in atto nel mondo del business in quel periodo (che ovviamente non è stato adeguatamente interpretato). Il primo distacco è avvenuto nei primi Anni 90, quando iniziarono a sparire le grandi aziende italiane e non arrivarono contemporaneamente le nuove multinazionali tecnologiche, come invece avvenne in altri Paesi d’Europa.

Le cause di ciò sono probabilmente individuabili in tre ordini di motivi. Il primo riguarda il contesto socio-economico italiano, certamente non valutato come rassicurante da parte dei player esteri potenzialmente interessati a insediarsi in Italia (per motivi quali la non certezza del diritto, ecc..). Il secondo motivo è stata la politica fiscale dei Governi di quegli anni: una condizione che ha suggerito alle nostre aziende di spostare i loro headquarter e i consolidati dei loro fatturati all’estero (decurtando il loro contributo al Pil italiano). Tale politica fiscale è stata probabilmente l’aspetto che ha maggiormente scoraggiato le multinazionali tecnologiche dall’approdare nel nostro Paese, preferendo quelli con un fisco più ‘amico’. Il terzo motivo può essere individuato nell’incapacità delle nostre grandi aziende di mantenere la loro competitività e spesso anche di riuscire a trasformare alcune realtà padronali in imprese manageriali e quotate in Borsa: la perdita delle grandi aziende, ha fatto sì che il nostro destino rimanesse prevalentemente in mano alle nostre PMI (fortunatamente numerose).

Non potendo accedere ai grandi mercati e ai grandi volumi e non potendo fare innovazioni applicabili su larga scala, le PMI si sono salvate agganciandosi a filiere le cui capo fila erano multinazionali estere, per esempio le aziende francesi nel Fashion e le tedesche per l’Automotive. Ciò è avvenuto nel decennio a cavallo del fine secolo. Tale situazione ha ovviamente ridotto il valore aggiunto della parte italiana delle filiere, in quanto fornitori di chi aveva in mano il mercato finale con i suoi maggiori valori aggiunti. Questa perdita di valore aggiunto ha impattato negativamente sull’indice della nostra produttività (valore prodotto/addetto), riducendone il numeratore e annullando così anche il possibile effetto positivo ottenuto, per esempio con l’automazione.

L’indice di produttività, che stava lentamente aumentando dal 1970 al 2000, ha infatti incominciato a scendere ininterrottamente fino a oggi, mentre quello degli altri Paesi ha continuato ad aumentare. In tali anni, in realtà, l’aumento di gap rispetto ai competitor è stato condiviso in parte proprio con la Germania, rimasta, come l’Italia, su modelli di business prevalentemente di Manufacturing e prodotti fisici, mentre negli altri Paesi cresceva il business dei servizi. L’essere rimasti, in grande misura, agganciati all’economia industriale tedesca non ci ha fatto aprire sufficientemente agli altri modelli che si stavano affermando altrove. E le conseguenze sono oggi ben chiare.

produttività, PMI, pil, competitività


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Giorgio Merli

Giorgio Merli è autore di numerosi libri e articoli sul management pubblicati in Europa e negli Usa; è consulente di multinazionali e Governi, oltre che docente in diverse università in Italia e all’estero. È stato Country Leader di PWCC e di IBM Business Consulting Services

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