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Il ruolo delle aziende per colmare il gap di genere

Gli ultimi decenni hanno visto al centro dei dibattiti politici e socio-culturali il tema delle pari opportunità, ma in concreto i risultati sono stati poco significativi; infatti, ancora oggi l’occupazione delle donne rappresenta un motivo di affanno per il nostro Paese.

Il dato in sé potrebbe non allarmare: a partire dagli anni Novanta l’occupazione femminile è cresciuta in maniera considerevole rispetto a quella maschile. Tale crescita è frutto di un mix di fattori quali le congiunture economiche favorevoli, la maggiore partecipazione delle donne ai tavoli dell’istruzione, l’aumento della domanda di lavoro nel settore dei servizi e, non da ultimo, l’avanzamento culturale che ha permesso alle donne di essere accettate legittimamente come forze attive nel mercato del lavoro, al di là della loro essenziale funzione familiare.

Nonostante questo, l’Italia arrossisce di fronte alle statistiche di genere e al target europeo: se, infatti, il tasso di occupazione femminile nel nostro Paese è di oltre il 19% inferiore rispetto a quello maschile, esso si pone a una distanza di oltre 12 punti percentuali in relazione alla media europea.

Il tasso di inattività delle donne in Italia resta tra i più alti in Europa ed emerge un ulteriore elemento di interesse: l’età media del primo figlio per una donna italiana è salita a 32 anni, mentre il numero di figli per donna si attesta intorno a 1,3; la percentuale di donne che abbandonano il lavoro, dopo il primo figlio, è ancora molto alta e aumenta con la nascita del secondo.

Infine, in Italia le condizioni e la qualità dei servizi per la famiglia (asili nido, scuole materne, scuola, sostegno all’istruzione e all’emancipazione dei giovani dalla famiglia) si sono stabilizzate su livelli tutt’altro che incoraggianti rispetto alla media europea, nonostante il Paese si collochi al terzo posto, dopo Austria e Olanda, per il ‘tasso di generosità’ delle tutele poste a supporto della maternità.

Colmare il gap di genere è un vantaggio per tutti

Su questo scenario emergono, da un lato, il riconoscimento del duplice ruolo, produttivo e riproduttivo, della donna; dall’altro, le evidenti difficoltà di conciliare lavoro e famiglia, che ancora ne condizionano l’accesso al mondo del lavoro e gli avanzamenti di carriera.

Nonostante l’impegno delle istituzioni e della società, ancora oggi si assiste a una divergenza tra politiche auspicate a tutela della famiglia, della maternità e delle pari opportunità rispetto ai numeri dell’occupazione femminile, alle pratiche e ai trattamenti che le donne ricevono tutti i giorni sul posto di lavoro.

Per rendere più agevole tale conciliazione, l’impegno simultaneo del mondo istituzionale e aziendale è divenuto fondamentale, insieme con la necessità di un radicale cambiamento culturale all’interno delle singole famiglie e della società in genere.

L’elevata attenzione rispetto al problema della conciliazione non è casuale. Il dibattito attuale sull’occupazione femminile trova la sua ragion d’essere nei vantaggi che il sistema economico, la società e le stesse organizzazioni possono ottenere da una sua implementazione.

Un aumento della partecipazione femminile genererebbe in Italia un potenziale di crescita economica che, secondo uno studio della Banca d’Italia, porterebbe a un incremento del Pil del 7%, oltre a una riduzione del rischio di povertà per le famiglie attraverso l’innesco di un circolo virtuoso secondo il quale una maggior occupazione femminile potenzierebbe la domanda di servizi, creerebbe occupazione per sostituzione e permetterebbe un incremento della ricchezza complessiva.

Inoltre, sarebbe possibile ottenere l’auspicato cambiamento culturale, formando le nuove generazioni alla parità ‘praticata’ e non solo predicata.

Gli effetti positivi del favorire l’occupazione femminile

Sul versante delle organizzazioni, è riconosciuto pressoché universalmente, secondo la teoria del vantaggio competitivo basato sulle risorse, che il capitale umano rappresenti un fattore chiave per il successo dell’impresa e che la diversità di genere possa contribuire a facilitare la risoluzione di diversi problemi organizzativi, specialmente inerenti il lavoro di gruppo.

La presenza di donne all’interno dei consigli di amministrazione può alleggerirne l’atmosfera e ridurre i livelli di conflitto. Più in generale, si ritiene che le politiche di diversity management possano produrre effetti positivi sul commitment dei lavoratori attraverso la percezione di più elevati gradi di giustizia procedurale e distributiva all’interno dell’organizzazione.

Tra i vari esempi che si possono citare, c’è quello della modalità di gestione della maternità in azienda: le prassi e le politiche aziendali rivolte alle lavoratrici madri, infatti, possono contribuire a “trasmettere a tutti i lavoratori un messaggio di attenzione al benessere lavorativo”.

In questo modo l’azienda può apparire più credibile e impegnata verso la ricerca di soluzioni a problemi che toccano la sensibilità della maggior parte dei dipendenti, facilitando il processo di identificazione, la creazione di fiducia nell’organizzazione e stimolando la cooperazione.

Infine, non vanno sottaciute le capacità dell’organizzazione di attrarre e trattenere la ‘diversità’ all’interno dell’impresa, che le permettono di beneficiare di un vantaggio competitivo in termini di creatività, problem solving, flessibilità e maggiore facilità di adattamento al cambiamento.

Superare i pregiudizi verso le donne al lavoro

Secondo la metafora del glass ceiling, nei loro percorsi di carriera le donne sono ostacolate da pregiudizi attitudinali e organizzativi che si trasformano in barriere trasparenti, praticamente invisibili, ‘di cristallo’.

Questo ‘soffitto di cristallo’ non è tanto collegato alla capacità della donna nel gestire il proprio lavoro, quanto al fatto stesso di essere donna. Tra i motivi di questo set di cristallo: i pregiudizi sulla maternità, il ruolo prevalente delle donne nella cura dei figli e le carenze di servizi di assistenza alle famiglie.

Non a caso, il divario occupazionale tra uomini e donne si aggrava con la nascita dei figli. La funzione biologica della madre influisce, come è ovvio, sulla prosecuzione della sua attività lavorativa. Il dato preoccupante, ancora una volta italiano, è che la maternità determina un vero e proprio impatto negativo sull’occupazione femminile.

Prendendo in considerazione i pregiudizi, un primo bias, relativo alla minor fecondità delle donne che lavorano, è stato definitivamente demolito dall’evidenza che nei Paesi dove le donne lavorano di più la fecondità e la natalità sono più alte rispetto a quelli a bassa occupazione femminile.

Anche la convinzione che le madri lavoratrici siano peggiori delle madri a tempo pieno viene meno: il lavoro delle madri non sembra danneggiare i risultati cognitivi e comportamentali dei bambini se sostituite in modo adeguato attraverso, ad esempio, asili nido di qualità.

Un ruolo significativo gioca la persistenza dei pregiudizi relativi alla funzione materna e familiare delle donne, nell’idea che il parto e la famiglia possano essere motivo di distrazione dal proprio lavoro, che esse siano meno produttive e più instabili emotivamente durante la gravidanza e che abbiano maggiori responsabilità nell’assistenza dei bambini e degli anziani.

Negli ultimi 25 anni la situazione ha registrato un lento miglioramento, dovuto non tanto alla maggior collaborazione maschile nel lavoro familiare, quanto alla decisione o costrizione delle donne di ritagliare parte di questo tempo per dedicarlo al lavoro.

Da questo quadro emergono donne sovraccariche di lavoro, sia familiare sia extradomestico, con meno figli di quanti ne vorrebbero e con meno tempo libero a disposizione. In Italia, inoltre, le donne rappresentano il pilastro portante della ‘rete informale di aiuti tra le famiglie’, le principali care giver, mentre in altri Paesi europei i compiti assistenziali sono svolti per lo più da strutture pubbliche.

Alla luce di quanto descritto, le politiche organizzative poste in essere dalle imprese per favorire l’occupazione femminile attraverso una migliore conciliazione dei tempi di vita con quelli di lavoro di per sé non sono sufficienti a innescare un circolo virtuoso. Politiche sociali attive e potenziamento delle infrastrutture sono interventi necessari per gli obiettivi che ci si propone.

L’articolo è liberamente tratto dal paper di Lucia Aiello e Michela Iannotta dal titolo Donne e Lavoro in Italia. Considerazioni sulla propensione all’assunzione tra politiche pubbliche e welfare aziendale, pubblicato sul numero 257 di Sviluppo&Organizzazione. Per informazioni sull’acquisto di copie e abbonamenti scrivi a daniela.bobbiese@este.it (tel. 02.91434400)

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