Il welfare cresce a vista… d’impresa
C’è una nuova consapevolezza nelle Piccole medie imprese (PMI) italiane, che riguarda il benessere delle proprie persone. Il welfare aziendale è passato così da ‘rarità’, applicata da pochissime imprese, a buona pratica messa in campo da molti. Da otto anni, Generali pubblica il Welfare Index Pmi, lo studio su quanto e come il welfare è utilizzato dalle aziende e con quali strumenti (flessibilità oraria, Smart working, polizze sanitarie, solo per citarne alcuni).
Ne è emerso, stando ai dati di questa ottava edizione, che il 75% delle aziende oggetto di studio – quelle da sei a 1.000 addetti, che in totale in Italia sono 661mila – ha raggiunto un livello “almeno medio” di prestazioni nei confronti del personale. “Significa che non si limitano ad applicare quanto previsto dai contratti collettivi nazionali, ma vanno oltre”, ha spiegato Enea Dallaglio, partner di Innovation Team nel corso della presentazione dello studio. Un tasso triplicato rispetto al 2016, quando le PMI che lo attuavano erano solo il 10%. In più negli ultimi due anni c’è stata quindi una accelerazione dell’8%.
“Andare a lavorare con il sorriso”, ha affermato Laura Chimenti, giornalista del Tg1, che ha guidato l’evento. Perché in questo si traduce la messa a terra da parte delle aziende di politiche che danno una mano ai lavoratori a gestire la propria vita oltre quella professionale. In un equilibrio sempre più complicato da mantenere perché, è stato scritto nel report, la società è “destabilizzata dall’invecchiamento demografico”. Per certi versi è tutto da ripensare. “Non andrebbe messa al centro la famiglia, invece del lavoro?”, ha chiesto Chimenti a imprenditori e manager intervenuti all’evento.
L’esigenza di conciliare vita e lavoro
Tra le 10 tipologie di welfare oggetto di studio, la conciliazione vita-lavoro è proprio quella su cui le aziende stanno facendo di più e mostrano maggiore maturità. Fondamentale in un Paese in cui, è sempre scritto nel report, il tasso di occupazione femminile è di 18 punti inferiore a quello maschile. E le retribuzioni delle donne sono inferiori quasi del 20% rispetto a quelle maschili. Dall’indagine risulta inoltre che sono in aumento le PMI che concedono flessibilità oraria oltre quella contrattuale: sono il 41%, contro il 35% del 2023. Crescono anche Smart working, integrazione dei congedi di maternità e paternità, permessi aggiuntivi retribuiti, utilizzati da un’azienda su cinque. Assenti invece, quasi ovunque, altri servizi come il disbrigo di pratiche burocratiche, nidi aziendali (fermi all’1%), convenzioni con il trasporto pubblico. Segno che qui c’è invece ancora strada da fare.
Il riflesso del welfare si vede sull’affermazione professionale dei lavoratori: più cultura di welfare c’è, più si riscontra valorizzazione delle persone, è quanto emerge dallo studio di Generali. Le organizzazioni che investono in tal senso offrono maggiori servizi alle famiglie, con risultati virtuosi sul piano del gender balance. “Quando il livello di welfare è alto, il 38% dei manager risulta donna: 10 punti in più rispetto a chi attua un welfare basso”, ha spiegato Dallaglio. Anche l’organico ne risente, perché si tende a assumere di più. Dove il welfare aziendale procede spedito, il saldo tra assunzioni e uscite è positivo e raggiunge il 44%.
Se l’azienda investe in welfare, ne è ripagata sul piano di redditività e produttività, dunque si cresce di più. I numeri lo dicono chiaramente. È provato, perché, come sostenuto da Dallaglio, “i bilanci analizzati sono oltre 4mila, e la correlazione con il fatturato è altissima”. Il motivo è che le imprese che adottano misure in tal senso gestiscono meglio anche il loro business. L’abitudine è al modello novecentesco in cui le imprese producono ricchezza, lo Stato la preleva e la redistribuisce. Ma la prospettiva deve cambiare: “Serve un welfare che si espanda e si innovi, che non solo distribuisca ricchezza, bensì che contribuisca a generarla”. Farlo non è semplice, perché il tessuto imprenditoriale italiano è composto da PMI, che spesso hanno bisogno di aiuto perché sono piccole e frammentarie. “Occorrono progetti del pubblico, del privato e del Terzo settore, che da un lato offre welfare di avanguardia, ma è a sua volta fornitore di servizi”, prosegue Dallaglio.
Il welfare aziendale ha anche un’altra valenza, perché trasferisce parte della spesa dalle famiglie alle imprese, trasformandola da individuale a collettiva, ha evidenziato lo studio di Generali. Le famiglie meno abbienti sono anche quelle più duramente colpite dall’inflazione. E se c’è un fronte sul quale hanno più fatto fatica è proprio quello della spesa sanitaria, tanto che spesso si rinuncia a curarsi. Il costo grava sulle famiglie per il 71%, con un esborso pari a 140 miliardi di euro nel 2023, 5.600 euro a nucleo familiare. Una stangata che è “causa di iniquità”, perché grava maggiormente sulle fasce più vulnerabili. Ecco allora che il welfare aziendale agisce come fattore di efficienza ed equità.
Giornalista professionista, classe 1981, di Roma. Fin da piccola ha avuto il pallino del giornalismo. Raccontare i fatti che accadevano, quale mestiere poteva essere più bello di così? Laureata in Giurisprudenza alla Sapienza nel 2006 con un Erasmus a Madrid. Nel 2009 ha conseguito il master in Editoria, giornalismo e management culturale, di nuovo alla Sapienza. Nel mentre gli stage (Associated Press, Agi e Adnkronos) e i primi articoli per i giornali, quasi sempre online. All’inizio si è occupata di cultura e spettacoli, con il tempo è passata a temi economici, soprattutto legati al mondo del lavoro. Che è il settore di cui si occupa principalmente anche oggi.
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