Corporate social responsibility

Imprese a misura di essere umano

Nel 1970 il premio Nobel per l’Economia Milton Friedman affermava in un suo articolo sul New York Times Magazine: “C’è una e una sola responsabilità sociale dell’impresa, cioè impiegare produttivamente le proprie risorse e impegnarsi in attività concepite per aumentare i propri profitti, nel rispetto delle regole, affrontando liberamente la competizione, senza ricorrere a inganni o frodi”. Friedman rimandava così al Legislatore il compito di definire le regole del gioco, nell’ambito delle quali l’impresa avrebbe avuto il diritto-dovere di perseguire i propri obiettivi reddituali, senza particolari ulteriori remore e attenzioni, nel mero interesse degli azionisti. Oggi, pur non mancando chi ancora sarebbe pronto a sottoscriverla, una simile affermazione appare decisamente superata. Negli anni ci si è mossi invece sulla via tracciata nel 1984 da Edward Freeman, insegnante e filosofo, che in quell’anno pubblicò il suo libro Strategic management: a stakeholder approach, nel quale per la prima volta si evidenziava il fondamentale collegamento tra etica e strategia competitiva, ponendo le basi di una teoria che sarebbe diventata una guida per lo sviluppo della nuova concezione di responsabilità sociale d’impresa.

Freeman poneva quale obiettivo per il management la creazione di valore non più per i soli stockholder (gli azionisti), ma per una collettività di portatori di interessi (gli stakeholder, appunto), definiti come ogni soggetto che possa influenzare o essere influenzato dal raggiungimento degli obiettivi dell’organizzazione. Di più: Freeman considerava valori e morale come elementi centrali nella gestione delle organizzazioni e parlava in proposito di “responsabilità della società verso gli stakeholder”, volendo sottolineare come nel concetto di responsabilità d’impresa non debba esserci separazione tra affari ed etica e come tale impostazione possa estendersi a tutti i soggetti economici in generale, non solo alle grandi corporation.

Sebbene in parte fosse implicito, il lavoro di Freeman mancava di un riferimento alla tutela dell’ambiente. Il gap fu colmato nel 1987 con il Rapporto Brundtland alla World commission on environment and development, con cui venne formalizzata la definizione di sviluppo sostenibile come “uno sviluppo che soddisfa i bisogni del presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri bisogni”.

Il dibattito sulla CSR e i tentativi di inquadramento normativo

La Corporate social responsibility (CSR) è entrata formalmente nell’agenda dell’Unione europea a partire dal Consiglio europeo di Lisbona del 2000, essendo inclusa fra gli strumenti strategici atti a realizzare obiettivi di competitività e coesione sociale e a modernizzare e rafforzare il modello socio-economico europeo. Nel libro verde della Commissione europea la responsabilità sociale è definita come “l’integrazione volontaria delle preoccupazioni sociali e ambientali delle imprese nelle loro operazioni commerciali e nei rapporti con le parti interessate”. Gli stakeholder di Freeman, per intenderci.

Così intesa, la CSR travalica finalmente il mero rispetto delle prescrizioni di legge e include pratiche e comportamenti che l’impresa adotta su base volontaria, mirando a coniugare il proprio vantaggio con la produzione di benefici per il contesto nel quale opera. Particolare attenzione è prestata ai rapporti con i collaboratori, i fornitori, i clienti, i partner, la comunità e le istituzioni locali; questa attenzione si traduce nell’adozione di politiche aziendali capaci di cogliere e sfruttare al meglio le sinergie fra gli obiettivi economici e quelli sociali e ambientali, in un’ottica di sostenibilità futura.

Il dibattito sui temi della CSR e dello sviluppo sostenibile ha compiuto un ulteriore passo importante nel 2005, quando l’allora Segretario Generale delle Nazioni unite Kofi Annan stimolò la comunità finanziaria a riflettere sui principi che avrebbero dovuto ispirare l’impiego sostenibile e responsabile dei capitali. I rappresentanti dei principali investitori internazionali raccolsero l’invito e il risultato sono stati sei principi ufficialmente lanciati alla Borsa di New York nell’aprile del 2006 sotto il nome di United nations principles for responsible investments (Un-Pri). Gli Un-Pri hanno raccolto grande consenso e il numero dei sottoscrittori che aderiscono su base volontaria, assumendo l’obbligo di pubblicare annualmente un report sulle proprie politiche di investimento, è cresciuto di anno in anno. L’organizzazione che li raccoglie si è data nobili scopi di lungo periodo: “Il nostro obiettivo è quello di unire gli sforzi degli investitori responsabili affinché lavorino alla costruzione di mercati sostenibili che contribuiscano a un mondo più prospero per tutti”.

Se da un lato quindi il dibattito sul ruolo sociale dell’impresa si è evoluto e arricchito negli anni, una serie di indicazioni e definizioni per inquadrare la tematica in maniera più organica e formale sono state raccolte per la prima volta nel 2010 dalla Uni Iso 26000, “guida alla responsabilità sociale”.

Anche l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) nel 2011 ha fornito delle linee guida per le imprese multinazionali. Si è quindi venuta affermando l’esigenza di inquadrare in un contesto normativo la materia. A livello comunitario il primo passo verso la formalizzazione di norme relative alla CSR è stato compiuto nel 2011, con la Comunicazione 681 della Commissione europea, la quale ha esplicitato le linee guida che avrebbero dovuto improntare l’azione comunitaria in materia negli anni a venire. È sulla scia segnata da tale comunicazione che si è arrivati nel 2014 all’emanazione della Direttiva 95, che definisce le modalità secondo cui deve avvenire la “comunicazione di informazioni di carattere non finanziario e di informazioni sulla diversità da parte di talune imprese e di taluni gruppi di grandi dimensioni”. E questa volta non più su base volontaria, ma in maniera cogente.

Le imprese dovrebbero andare oltre il mero interesse degli azionisti

In verità, per quanto al tema siano state dedicate in seguito altisonanti dichiarazioni e anche le Nazioni unite si siano unite al coro promulgando un’audace agenda per lo sviluppo sostenibile da completarsi per il 2030, poco si è fatto sul piano normativo oltre che imporre a una ristretta cerchia di soggetti sofisticati obblighi comunicativi, che peraltro, per quanto articolati, hanno il difetto di essere spesso assolti con informazioni che non è sempre facile verificare. Le pratiche di greenwashing si sono diffuse rapidamente e altrettanto rapidamente si sono affinate, e per molti dichiararsi sostenibili è uno sport alquanto remunerativo, che non richiede particolari sforzi se non di fantasia e comunicazione. Se in tutto il mondo civilizzato la politica ha segnato il passo e qualche ‘furbetto’ ha pensato di approfittare della moda del momento per dare una rinfrescata alla propria immagine, c’è anche chi si è preso la briga di richiamare all’ordine la compagnia. Un segnale positivo in tal senso è arrivato nell’agosto 2019 dalla Business Roundtable, l’associazione che raggruppa i CEO delle principali aziende statunitensi, che ha dichiarato in maniera inequivocabile come il compito dell’impresa non possa essere quello di soddisfare i meri interessi degli azionisti, quanto piuttosto quelli di tutti gli stakeholder, ivi inclusi gli investitori, i dipendenti, i fornitori, i clienti e la comunità nell’ambito della quale l’impresa opera.

Più interessante, per certi punti di vista, è la lettera che nel 2020 Larry Fink, CEO di BlackRock, uno dei principali fondi d’investimento a livello mondiale, ha inviato agli amministratori delle società nelle quali il fondo investe, ammonendoli sul fatto che la sostenibilità delle loro aziende avrebbe giocato un ruolo centrale nelle valutazioni di rischio in base alle quali lo stesso fondo avrebbe allocato in futuro le proprie risorse. L’iniziativa è rivelatrice di un certo modo di vedere le cose proprio di chi muove leve importanti dell’economia mondiale ed è probabilmente più efficace, perché per quanto si abbiano buone intenzioni, gli incentivi in denaro hanno ancora un peso rilevante nel muovere le strategie aziendali.

L’articolo integrale è pubblicato sul numero di Settembre-Ottobre 2021 di Persone&Conoscenze.
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Gaetano Ievolella

Gaetano Ievolella si è laureato in Economia Aziendale all’Università Bocconi di Milano e ha maturato esperienze come consulente di direzione e quindi come manager, ricoprendo ruoli direttivi in ambito IT e Finance e poi come Amministratore Delegato della Molteni Farmaceutici. Oggi è Senior Partner di Ergon Master Team, network di professionisti associati che dal 1985 affianca nei loro percorsi di crescita le imprese che costruiscono sul valore delle persone il proprio vantaggio competitivo.

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