Influencer e smart worker di tutto il mondo, unitevi
Il nome Mafalda De Simone può non dire nulla. Tiriamo in ballo, invece, Chiara Ferragni, Giulia De Lellis, Gianluca Vacchi, Paola Turani o Mariano Di Vaio: la storia cambia e l’argomento è presto svelato. Stiamo parlando degli influencer. Che, a quanto pare, vorrebbero un sindacato. O almeno lo vorrebbe Mafalda De Simone, che raccogliendo il pensiero di molti suoi colleghi con più o meno follower (lei ne ha 177mila, Ferragni e Vacchi superano i 20milioni) ha proposto di recente la creazione di un sindacato degli influencer italiani, allo scopo di coprire il vuoto contrattuale tra le aziende e i vip dei social.
Dalla rivoluzione industriale inglese, periodo in cui nacquero le prime associazioni di lavoratori, la situazione è insomma parecchio cambiata. Oggi a chiedere rappresentanza e contrattazioni standardizzate non sono operai e minatori, ma influencer, rider e smart worker, lavoratori di Amazon (sono di inizio maggio le prime elezioni delle Rsu nello stabilimento del colosso di ecommerce a Castel San Giovanni, in provincia di Piacenza, nelle quali ha vinto la Cgil, davanti a Ugl, Cisl e Uil) e capitale umano di Google (che ha il suo primo sindacato da gennaio 2021, l’Alphabet workers union).
Il sindacato degli influencer esiste già nel mondo
Intendere gli influencer come lavoratori fa ancora sorridere (o indignare, a seconda del punto di vista) molte persone, ma pubblicizzare brand e prodotti sui social è ormai un’attività a tempo pieno per molti. E ogni lavoro ha in sé dignità. In questo caso si pensi che, secondo una stima di Business Insider (dati di Mediakix), entro il 2022 l’industria-influencer è destinata a raggiungere quota 15 miliardi di dollari, globalmente.
Il problema è, appunto, l’assenza di regole riguardanti la contrattazione delle partnership sponsorizzate, degli scambi ‘prodotti-post’ e del coinvolgimento degli influencer in quanto creatori freelance. La pubblicità, oggigiorno, passa infatti sempre più spesso per la strada degli articoli sponsorizzati su Instagram, Facebook e TikTok; ma se i classici advertising su carta stampata e mezzi di comunicazione audio e video sono regolamentati e assicurati, gli influencer paiono sentirsi scoperti e vulnerabili. Soprattutto quelli più piccoli: in tutto il mondo le ‘star’ Instagram con meno follower stanno denunciando disparità di trattamento, mancanza di rappresentazione nelle campagne commissionate dalle aziende (per quanto riguarda la diversity) e assenza totale di contratti e accordi, in certi casi.
Non sono dunque solo gli influencer italiani a chiedere contratti e regole. Nel Regno Unito un sindacato già esiste (The creator union, nato nel 2020 per volere di Nicole Ocran con l’intento di ottenere pagamenti equi, inclusione e istruzione di settore), mentre negli Usa gli influencer si stanno organizzando attorno all’American influencer council, un’associazione no profit di categoria voluta da Qianna Smith Bruneteau a giugno 2020.
Rider e smart worker chiedono maggiori tutele
Diverso, ma non troppo, il discorso che riguarda rider e smart worker, che conferma la tendenza delle nuove professioni a volersi raggruppare in sindacati. Di un paio di mesi fa è la (bella) notizia dell’accordo di Cgil, Cisl, Uil e Assodelivery sottoscritto alla presenza del Ministro del Lavoro. Si chiama Protocollo quadro sperimentale per la legalità contro il caporalato, l’intermediazione illecita e lo sfruttamento lavorativo nel settore del food delivery ed è stato raggiunto grazie agli sforzi di Assodelivery, la prima e unica associazione che tutela i diritti dei lavoratori dell’industria del food delivery, a cui aderiscono Deliveroo, Glovo, Just Eat, SocialFood e Uber Eats. Se n’è parlato anche in una puntata di PdM Talk, il talk show del nostro quotidiano.
Gli smart worker, dal canto loro, si stanno cominciando a muovere. Dalla loro parte per ora hanno qualche accordo (come quello siglato il 25 febbraio 2021 tra Cifa e Confsal), ma non un vero e proprio sindacato. O, almeno, non lo avevano. Ora ne hanno addirittura due: negli ultimi mesi sono infatti nati Smart worker union e Smart but strong (il cui tesseramento è gratuito e anonimo). In entrambi i casi la pandemia ha accelerato le cose: se prima il lavoro agile era adottato solo da poche aziende, con il Covid-19 sono moltissime le realtà che hanno potuto sperimentare il lavoro da remoto. Che, tuttavia, è rimasto meramente “da remoto”.
Lo Smart working, infatti, dovrebbe essere altro rispetto al ‘lavoro da casa’ e i due sindacati vogliono puntare il focus sulle opportunità della digitalizzazione e della decentralizzazione del lavoro, cercando allo stesso tempo di arrivare a una solida regolamentazione che risponda alle reali esigenze dei nuovi lavoratori smart, che in questo momento si trovano sempre più spesso a fare i conti con lo stress da lavoro ininterrotto, con il diritto alla disconnessione poco riconosciuto e con modalità di lavoro che di smart e flessibile hanno ben poco
Sara Polotti è giornalista pubblicista dal 2016, ma scrive dal 2010, quando durante gli anni dell’Università Cattolica del Sacro Cuore (facoltà di Lettere e Filosofia) recensiva mostre ed eventi artistici per piccole testate online. Negli anni si è dedicata alla critica teatrale e fotografica, arrivando poi a occuparsi di contenuti differenti per riviste online e cartacee. Legge moltissimo, ama le serie tivù ed è fervente sostenitrice dei diritti civili, dell’uguaglianza e della rappresentazione inclusiva, oltre che dell’ecosostenibilità.
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