La corsa dell’ameba
Il ricordo è riaffiorato durante il lungo domenicale. Era nascosto in un cassetto della memoria, che aspettava solo di essere rispolverato. Improvvisamente m’è tornato alla mente quando mi stavo apprestando a fermarmi al secondo ‘ristoro’ improvvisato, trovandolo – drammaticamente – non funzionante. E così nel mio costante (ri)adattamento dell’allenamento mi sono ricordato dell’ameba concept.
Sono convinto di averne letto qualcosa in un articolo scientifico di Sviluppo&Organizzazione almeno una decina d’anni fa e da allora l’ho spesso adottato come stile di vita. L’ameba è un essere vivente dalla straordinaria capacità di adattarsi in continuazione all’ambiente circostante. Più che una persona priva di volontà – è questa la declinazione popolare indicata anche dai dizionari – preferisco focalizzare l’attenzione sull’adattamento, caratteristica da cui, ammetto, ho preso più volte ispirazione. E ai più scettici, dico che Kazuo Inamori, attuale presidente onorario di Kyocera, lo ha elevato declinandolo nell’Amoeba management.
Per esempio, in occasione dell’ultimo allenamento, ho dovuto riadattare in continuazione vari aspetti della corsa. Non che fosse una novità, perché l’adattamento è tipico del runner: da sempre si esce con ogni tipo di clima e ogni temperatura. Mi capita spesso di rispondere a parenti e amici che mi chiedono se si corra anche con la pioggia: esistono pochi ‘nemici’ del runner, ma di certo tra questi non c’è la pioggia. Sì, si corre sotto l’acqua (non si corre con il temporale!). Perché? Perché a distanza di mesi dall’inizio della preparazione, non si potrà mai avere la certezza delle condizioni meteo della gara. E dunque bisogna prepararsi ad affrontare ogni condizione. Il mondo Vuca (volatile, incerto, complesso e ambiguo) è perfettamente rappresentato nella corsa.
Ma torno allo spirito di adattamento che mi ha fatto ricordare l’ameba. Come spesso mi accade ultimamente, ho ignorato ben due sveglie, alzandomi dal letto ben 30 minuti dopo rispetto al programma che avevo ideato la sera precedente. E così durante la preparazione per l’uscita ho riadattato l’allenamento al nuovo tempo a disposizione nella ‘finestra’ temporale faticosamente concordata con la famiglia. Niente lungo di 32 chilometri, ma nuovo obiettivo di 25-28 chilometri, con ristori al sesto, 12esimo e 20esimo chilometro.
Arrivato sulla mia ‘pista’ di allenamento, faccio avanti e indietro nel primo tratto di naviglio, e tutto fila liscio, finché arrivo al secondo tratto dove mi aspetta la casetta dell’acqua (quella struttura dove si possono ricaricare le bottiglie) e scopro che è fuori servizio. A questo punto riprendo a correre, valutando il da farsi. C’è una fontanella a circa altri quattro chilometri sul mio percorso, che avevo però considerato come ristoro nel tratto di ritorno, per avere lo spunto nella parte finale. Meglio proseguire con il piano originale, allungando la seconda frazione a ben 14 chilometri oppure inventarsi una fermata al 16esimo chilometro e stringere i denti fino alla fine?
La prima opzione mi ricorda tanto il ‘si è sempre fatto così’ tipico di chi non ha la voglia di mettersi in gioco; la seconda, invece, la considero una scommessa: di certo mi consentirà di ricaricare subito le batterie, ma non è detto che poi ne avrò per arrivare fino in fondo. Ma, si sa, è fuori dalla zona di comfort che ci sono gli obiettivi da raggiungere… Facile intuire come siano andate le cose.
Quando qualcuno scopre la mia passione per il running e per la maratona, non di rado affronto lo stupore dell’interlocutore. A parte che, ricordo, esistono le ultra maratone (le distanze oltre la maratona), ciò che stupisce me, invece, è che tutti si interessano a come sia possibile correre per 42 chilometri. Il 42esimo chilometro è il più facile da percorrere, perché i veri ‘problemi’ arrivano ben prima. Dunque, è inutile pensare al rush finale; meglio concentrarsi su ogni singolo chilometro e a come correre quello successivo. Perché ogni maratona inizia dal primo passo. E dalla capacità di adattarsi agli innumerevoli imprevisti. Un po’ come nella vita. Ecco perché essere ameba, ogni tanto, può essere utile.
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