La felicità di lavorare nella bottega dei piccoli filosofi
Chiedendomi cosa significhi ‘essere felice al lavoro’ noto una prima reazione, quasi istintiva, che mi condurrebbe a ribaltare la prospettiva. Siccome il lavoro è una parte fondamentale della vita, almeno in termini di tempo dedicato, mi viene naturale domandare: come posso far sì che lavorare contribuisca alla mia felicità? Poi, proseguendo in questa indagine pseudo-psicologica, noto in me una sfumatura che colora il lavoro di fatica e pesantezza.
Il lavoro è funzionale ad ‘acquistare’ una vita serena, a tratti felice, ma la vera felicità risiede altrove, nei momenti che precedono e seguono l’attività lavorativa. Mi sembra che queste due tensioni convivano nell’insieme di definizioni che contiene l’ampio spettro dei significati possibili, dall’autorealizzazione alla soddisfazione gioiosa e puntuale per un singolo evento dell’esistenza.
Cerco di trovare una via per dare concretezza a una risposta e mi ritrovo a confronto con i modelli della filosofia, della psicologia e della religione. Miriadi di definizioni e ricette si affastellano nella mente e non riesco a fare ordine. Decido di richiamare un’esperienza vissuta a cavallo tra il 2018 e il 2019, che ha rappresentato uno degli apici della mia felicità lavorativa, lasciando le conclusioni al lettore. Non c’è pretesa di generalità. È solo lo spazio per un ragionamento personale su cosa significhi un lavoro che mi rende felice.
Da qualche anno m’interesso di pratiche filosofiche, con l’aiuto di letture e amici che, della filosofia, ne hanno fatto una professione. L’idea alla base di questo modo di interpretare la filosofia consiste nel proporre percorsi di pensiero in contesti non accademici, confidando nel fatto che la filosofia è una disciplina che riguarda ciascuno di noi.
Chiaramente, ciò non significa che gli specialisti siano inutili, ma che le domande filosofiche, i valori, il modo di pensare e avvicinarsi ai problemi caratteristici della filosofia sono profondamente radicati nell’essere umano, quindi ogni persona, in quanto portatrice di una certa visione del mondo, pratica questa materia.
Queste convinzioni, che condivido in buona misura, mi hanno spinto a sperimentare alcuni metodi tipici delle pratiche filosofiche in vari contesti organizzativi. Il mio sogno però, avendo lavorato negli ultimi anni con i giovani, era fare esperienza in una scuola primaria.
L’autunno scorso ho ricevuto una richiesta da un istituto scolastico, che mi ha commissionato un breve percorso di filosofia con i bambini. L’idea nasceva da un team di maestre che avevano studiato alcune metodologie di filosofia con i ‘piccolini’. All’inizio, superate le mie prime resistenze, timidezze e sensi d’inadeguatezza, ho cercato di impostare il lavoro rimanendo in comfort zone, scrivendo un progetto formativo esattamente come se il cliente fosse stata un’azienda.
Le maestre avrebbero condotto gli incontri. Io le avrei supportate in alcuni momenti. I sorrisetti delle insegnanti mi avrebbero dovuto insospettire. Al primo appuntamento d’aula le cose sono andate molto diversamente da come me le ero immaginate. I bambini, più di una trentina, appartenenti a due classi di terza elementare, si sono gettati a capofitto negli esercizi. Facevano domande, fornivano spiegazioni, argomentavano, ragionavano da soli e in gruppo.
Ero meravigliato dalla qualità delle loro riflessioni, dalla freschezza delle osservazioni e dal rispetto reciproco che mantenevano nelle discussioni. Subito mi hanno coinvolto nelle attività. Non potevo rimanere a guardare, limitandomi a fare il ‘consulente’ delle maestre.
Così siamo riusciti a costruire un nostro piccolo mondo, che abbiamo progressivamente popolato, decidendo cosa metterci dentro, condividendo le regole di convivenza, confrontandoci sui valori del mini-universo di significati. Abbiamo persino dato un nome alla nostra creazione. Mentre lo facevamo, abbiamo sperimentato il dialogo, quello vero –non da talk show–, in cui ci siamo incontrati, riconoscendoci in un rapporto volto verso una verità comune.
Avevo programmato incontri brevi, tenendomi ampi margini di variazione, temendo che i bimbi si potessero annoiare. In realtà il lavoro durava ben oltre le mie attese. Il numero di incontri è stato aumentato, su richiesta dei bambini stessi!
Alla sera, tornavo a casa con la sensazione di aver fatto qualcosa di bello e utile, riconosciuto dai bambini e da me. Mia moglie, che sa osservarmi meglio di come io sia in grado di fare, mi ha detto: “Hai stampato in faccia un sorriso che da tempo non vedevo. Sei felice!”. Così ho iniziato a chiedermi come essere veramente felice al lavoro. E –tranquilli!– la risposta non è stata: “Voglio fare la maestra”.
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