La formazione come spazio del pensiero critico
“Non troverai mai la verità se non sei disposto ad accettare anche ciò che non ti aspetti” (Eraclito). Spesso m’interrogo sul mio modo di prendere decisioni. Metto tra parentesi la mitologia autonarrata della razionalità come guida alle scelte e, proprio come programma d’indagine, cerco di lasciare emergere i fenomeni che mi stanno dinanzi. Presto mi accorgo che, frequentemente, prendo una strada, piuttosto che un’altra, sull’onda di impressioni, sensazioni, intuizioni, emozioni del momento che poco hanno a che fare con un’analisi strutturata della realtà che mi circonda. Mi astengo dal giudicare ‘sbagliata’ a priori questa maniera di agire, che, fino a ora, ha dato risultati che non mi sentirei di considerare negativi.
Ho sbagliato varie volte, ma spesso ho azzeccato. Il bilancio tra errori e successi è, tutto sommato, a favore del ‘quasi-metodo’ che utilizzo. Mi concentro, invece, sulle potenziali conseguenze generate da questa forma di procedere. Decisioni assunte in modo istintivo rischiano di ignorare i dati di realtà, facendomi costruire visioni del mondo, ma anche del futuro, fortemente influenzate dai miei bias cognitivi. Posso prescindere da essi? Sinceramente non lo so, ma vorrei almeno mitigarne gli effetti più perniciosi, come la totale mancanza di consapevolezza, il comportamento automatico, la reazione meccanica.
Faccio un esempio. Mi accorgo che decido – ma credo di non essere l’unico affetto da questa abitudine – sulla base di informazioni che mi vengono fornite da superiori, clienti, colleghi o collaboratori. Talvolta non verifico le fonti e la correttezza dei dati. Li assumo come esatti, in modo acritico. La giustificazione che mi do è che non sempre posso controllare, non sempre c’è il tempo. Così mi trovo nella condizione di dovermi fidare del contesto che mi ha portato quell’informazione. Dunque, agisco per dovere di ruolo, per pressione originata dall’urgenza, a motivo della spinta alla protezione dell’organizzazione o di me stesso. Ciò che però accade, in questi casi, è che smarrisco la mia libertà. Non mi rendo conto di agire come un funzionario di una tecnostruttura, il quale rinuncia alla propria identità, per trasformarsi in un ingranaggio di una macchina che procede in modo neutrale dal punto di vista etico. L’unica scelta dotata di èthos è quella di chi ha progettato lo strumento. Osservato dal punto di vista personale, il mio ruolo è di ‘banale’ –sono sicuro che l’intenzione d’uso di questo aggettivo non sfuggirà ai lettori– esecutore.
Per riuscire a fronteggiare questo rischio guardo alla formazione. Spesso ci si interroga sul suo compito oggi. Si insiste sull’importanza della dimensione metodologica, per conferire flessibilità e adattabilità alle soluzioni formative. Sono d’accordo. Però, vorrei che questa pratica fosse anche creazione di uno spazio, di una ‘bolla’ immune dall’urgenza e dalla necessità, in cui fare agire il pensiero critico. Si potrebbe obiettare che la formazione è soprattutto trasmissione di contenuti e sviluppo di competenze. Tuttavia, mi pare che questi aspetti non siano essenzialmente distinguibili dall’esercizio della riflessione critica. Ogni contenuto è portatore di un punto di vista ‘altro’ che ci pone nella situazione del dubbio. Siamo facendo bene oppure potremmo cambiare? Quando operiamo una scelta che potenzialmente influenza la nostra vita e quella degli altri, lo stiamo facendo sulla base di un atteggiamento scientifico ed etico oppure siamo mossi da logiche robotizzate? Non a caso la parola “robot” allude a un’azione in cui la libertà non ha diritto di cittadinanza.
Come recita il vocabolario Treccani: “Nome proprio, derivato a sua volta di ‘robota’, ‘lavoro’, con cui lo scrittore ceco Karel Čapek denominava gli automi che lavorano al posto degli operai nel suo dramma fantascientifico R.U.R. del 1920”. La formazione a cui aspiro è il ‘luogo del pensabile’. Sono fortemente preoccupato quando incontro organizzazioni in cui non solo è limitato ciò che può essere detto, ma persino ciò che può essere pensato è sottoposto a vincolo. Perché la formazione diventi la ‘casa del pensabile’ è necessario decostruire alcuni presupposti consolidati in cui ci si limita a fornire soluzioni prêt-à-porter, in cui si celebra l’ego del formatore o dei partecipanti, dove si è passivamente ‘socio-centrici’, rifiutando ogni dissenso, valutazione e via alternativa. Probabilmente, così scopriremo che porsi domande sui fatti, usando un serio setaccio critico, ci condurrà alla tanto anelata, quanto disattesa, innovazione.
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