La Manifattura alla prova della pandemia

La Manifattura italiana deve rivolgersi a due grandi spazi geopolitici: l’area Indopacifica e il Medioriente.

Nei mesi successivi alla prima crisi pandemica, che oggi sappiamo essere stati soltanto una breve pausa dell’ondata pandemica che non si è fermata, la resistenza dell’industria manifatturiera mondiale e, in particolare, di quella italiana ha sorpreso gli osservatori. La crisi ha confermato l’aggregazione differenziata dei distretti manifatturieri: in Europa, la Germania rimane la prima manifattura del Continente e l’Italia la seconda, forte della sua tradizione di stampisti della meccanica e di riproduzione delle macchine, seguita dalla Francia e dagli altri Paesi dell’Europa del Sud. Come sempre, l’Italia si pone come l’ultima dei primi e la prima degli ultimi.

Un fenomeno analogo si osserva nel resto del mondo, soprattutto negli Stati Uniti e nell’Indopacifico, aree su cui si concentra la nostra attenzione. L’industria manifatturiera statunitense ha resistito in misura ancora maggiore, perché gli Usa hanno quello che l’Unione europea non possiede: una Banca Centrale che adotti una politica non solo fiscale, ma anche monetaria rivolta al mantenimento del livello degli investimenti e una politica del debito produttivistica e diretta alla crescita.

In Corea del Sud e in Giappone, la manifattura è considerata l’avanguardia della resistenza pandemica. Sulla Cina, invece, è difficile formulare un giudizio, dal momento che non possiamo fidarci dei dati che vengono comunicati: durante l’ultimo congresso, celebrato in occasione della commemorazione dei 70 anni dell’ingresso dei Volontari del popolo cinese nella guerra di Corea, non sono stati comunicati dati relativi al Prodotto interno lordo del Paese, una circostanza inconsueta ed espressione dell’alta cuspide del capitalismo monopolistico di Stato cinese.

Quel che conta, però, è che Pechino, rispetto alle grandi promesse sul commercio mondiale disattese dalla Presidenza Trump, ha portato a casa una grande vittoria con la firma del Regional comprehensive economic partnership (Rcep) con i Paesi dell’Asia (Giappone, Corea del Sud, Indonesia, Cambogia, Vietnam, Thailandia, Filippine, Singapore, Brunei, Birmania, Laos, Cambogia e Vietnam) a cui si sono aggiunti Australia e Nuova Zelanda, segnando la sconfitta dei progetti di aggregazione dell’anglosfera. Questo patto, diretto all’abbassamento reciproco delle tariffe sui prodotti industriali e sulle Supply chain industriali, trasformerà profondamente l’equilibrio geopolitico dell’area e aprirà anche all’Europa nuove possibilità di esportazione.

L’accordo appena firmato regolamenta i diritti di proprietà e di trasferimento delle tecnologie ed è un risultato straordinario raggiunto dalla Cina, grazie anche alla mancanza di acume e di sorveglianza dei bisogni reali delle industrie del precedente tentativo americano. L’allora presidente Obama aveva due grandi disegni: il TransPacific Partnership (TPP), che prevedeva l’inclusione del Vietnam, ma non della Cina e da cui il Presidente Usa uscente Donald Trump si è poi ritirato, e il Transatlantic Trade and Investment Partnership (TTIP), fallito per l’insipienza dei Governi europei. Quest’ultimo avrebbe offerto alle nostre esportazioni manifatturiere grandi vantaggi, grazie alla previsione non di dazi tariffari, ma di meccanismi selettivi e di unificazione delle regole tecnologiche.

Lo sviluppo tra l’Indopacifico e il Medioriente

Nel lungo periodo la Manifattura europea e italiana deve rivolgersi a due grandi spazi geopolitici: da un lato l’area Indopacifica, per sfruttare gli spiragli tecnologici che questo immenso mercato apre, e dall’altro il Medioriente e la Mesopotamia, dove è tutto da ricostruire. Sul primo fronte, non sono dell’idea che la Germania riuscirà nel disegno di mantenere una grande alleanza con gli Stati Uniti, non potendo condividere a livello europeo la potenza nucleare inglese che dopo la Brexit afferirà soltanto alla Nato, e di esercitare allo stesso tempo un peso economico con la Cina, non disponendo di potenziali di dissuasione nell’Indopacifico. La situazione geopolitica è in movimento, ma il Presidente Usa eletto Joe Biden non cambierà la politica statunitense sulla Cina, sulla quale esiste ormai un accordo bipartisan, frutto anche di un’alleanza con le grandi corporation e le maggiori piattaforme digitali.

Sul secondo fronte, bisogna rilevare che l’Europa oggi non ha più una presenza mediterranea. Soltanto la Francia sta cercando di arginare il nuovo pericolo per l’industria europea rappresentato dalla Turchia di Erdogan che, insieme con la Russia, contende proprio a Washington e Parigi le regole per rendere il Mediterraneo un mare contendibile. L’Italia è stata espulsa sia dalla Libia sia dall’Egitto, dopo aver fatto qui una grande scoperta di giacimenti di gas che avrebbe dato ampio sfogo alla nostra industria. Avendo ormai perso ogni peso nel Mediterraneo, bisogna che riprenda una politica di attenzione, facendo da ponte tra la Germania e la Francia affinché trovino un’intesa per opporsi alla Turchia.

Il nostro Paese si gioca, infatti, la possibilità di posizionarsi sulla ricostruzione di grandi aree che hanno bisogno di tutto: macchine, edilizia, industria digitale. Bisogna ricostruire l’habitat che si estende tra il Tigri, l’Eufrate e l’Africa del Nord, un tempo culla della civiltà e oggi area da ricostruire. Il fatto che l’Unione europea non riesca a trovare una politica estera di riferimento sulla Mesopotamia e sul Medioriente danneggia la grande e media industria. La ricostruzione ha bisogno, per esempio, del nostro acciaio: se l’Ilva dovesse chiudere, quel mercato verrebbe lasciato alle acciaierie turche e cinesi che non hanno la nostra eccellenza tecnica.

Puntare sull’impresa come struttura sociale

Dalla pandemia uscirà probabilmente un nuovo modello economico: l’industria che non produce stock di capitale fisso, ma beni per un consumo immediato, spesso gestiti in nero, con vendite che creano soltanto lavoro improduttivo, sarà destinata alla marginalizzazione.

Al contrario l’industria manifatturiera, protagonista di una grande resistenza alla pandemia, sa già che l’organizzazione stessa del lavoro consente la sanitarizzazione e la difesa dal covid. L’importante è che non si interpreti lo Smart working come un ritorno a un mondo primitivo in cui non c’era distinzione tra la vita biologica e la vita intellettuale, realizzando il vecchio sogno dei tayloristi di razionalizzare il lavoro di ufficio con il controllo per mano di manager che non hanno più nulla dei dirigenti d’impresa.

La piccola e media industria fondata sul grande lavoro della persona e non sul ruolo è esente da questa forma di estrazione di plusvalore politico e finanziario. Se si riuscirà a puntare sul digitale per incrementare l’investimento per la crescita e per combattere la deflazione secolare che attanaglia la piccola e media industria e si farà meno politica assistenziale, dando un reddito solo a chi vuole costruire una piccola industria e rimediando alla povertà con la misericordia e la carità privata, saremo sulla buona strada. La pandemia non ha fatto che accelerare tendenze già in atto: l’impresa è una struttura sociale e il mondo stava già andando nel senso giusto.

* testo raccolto da Giorgia Pacino, in occasione dell’evento L’Officina di FabbricaFuturo

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Giulio Sapelli

Giulio Sapelli è laureato in Storia Economica e ha svolto attività di ricerca presso la London School of Economics and Political Science nel 1992-1993 e nel 1995-1996, e presso l’Università Autonoma di Barcellona nel 1988-1989 e l’Università di Buenos Aires. Ha lavorato in Olivetti ed Eni. È Professore Ordinario di Storia Economica presso l’Università degli Studi di Milano, dove insegna anche Economia politica e Analisi Culturale dei Processi Organizzativi. È collaboratore del Corriere della Sera e de Il Sussidiario.net.

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